Corte di Cassazione

20 Aprile 2019

Cass. Pen., Sez. V, sentenza 5 luglio 2017, n. 32367

Corte di Cassazione, V Sezione penale, sentenza 5 luglio 2017, n. 32367

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 22.10.2015 la Corte d’Appello di Cagliari, dichiarava la nullità della sentenza emessa dal G.u.p. del locale Tribunale in data 1.10.2014 nei confronti di M.P. in qualità di accomandatario della s.a.s. “P.M. di P.M.”, fallita in data 5.1.2007 limitatamente al delitto di bancarotta per distrazione, realizzato mediante l’emissione degli assegni, disponendo la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero, laddove confermava nel resto la sentenza impugnata quanto alla bancarotta fraudolenta per distrazione dei beni strumentali, nonché alla bancarotta fraudolenta documentale per aver omesso di consegnare al curatore fallimentare tutta la documentazione contabile e di presentare le dichiarazioni fiscali dal 2004, in modo da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il M., a mezzo del suo difensore di fiducia, affidato a tre motivi, con i quali lamenta:

– con il primo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo comma, lett. b) ed e) c.p.p., in relazione all’art. 10 D.Lgs n. 74/2000; invero, nell’ambito di altro e differente procedimento, con sentenza n. 714/2009, emessa dal Tribunale di Cagliari il 10.11.2009 il ricorrente è stato condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ed alle relative pene accessorie per il reato di cui all’articolo 10 D.lgs. 10.03.2000, perché al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in qualità di legale rapp.te e socio accomandatario della “P.M. di P.M. s.a.s.” ometteva l’esibizione dei documenti e dei registri contabili prescritti dalla normativa tributaria, riferiti alle annualità d’imposta 2001-2006 (fatti accertati in Iglesias il 06.11.2006); nel corso del presente processo l’imputato sollevava in sede di appello l’eccezione relativa al “ne bis in idem” tra la fattispecie di cui all’art. 216 primo comma, n. 2 comma R.D. n. 267 del 1942 – e quella di cui all’art. 10 D.lgs. n. 74/2000, ma sul punto la Corte d’Appello di Cagliari riteneva insussistente la denunciata violazione del principio di cui all’art. 649 c.p.p., nell’ipotesi, come quella in esame, in cui alla condanna per l’illecito tributario (per occultamento e distruzione di documenti contabili previsti dall’articolo 10 del D.lgs. n°74 del 2000), abbia fatto seguito la condanna per bancarotta fraudolenta documentale, stante la diversità dei fatti contestati; tale valutazione non si presenta condivisibile, atteso che, anche dalla lettura dei lavori preparatori dell’art. 10 D.Lgs n. 74/2000, emerge che nel caso in cui un soggetto sia stato contemporaneamente inquisito, tanto per la violazione fiscale, quanto per la violazione di cui all’art. 216, primo comma, n. 2 R.D. 16 marzo 1942 n. 267, non potrebbe configurarsi il concorso di reati, stante la clausola “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, contenuta nella premessa dell’art. 10;

l’occultamento o la distruzione delle scritture contabili e dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in virtù dell’inciso contenuto nella prima parte dell’articolo 10 D.lgs. 74 del 2000, così come prospettato dal legislatore al momento di esplicitare il senso della norma ed il suo collocamento nel complessivo quadro sanzionatorio, determina necessariamente l’assorbimento di tale comportamento nella disciplina dell’articolo 216 comma 1 n. 2 della Legge Fallimentare, che punisce la medesima attività materiale, ma la sanziona più pesantemente, sicché la pena eventualmente già inflitta per il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili dovrà essere ricompresa nella seconda e più grave pena prevista per la bancarotta fraudolenta documentale, ponendosi l’eventuale doppia condanna inflitta all’imputato per entrambe le fattispecie, in violazione del principio di cui all’art. 649 c.p.p.; la Corte d’Appello di Cagliari ha disatteso tale interpretazione, aderendo ai principi più recenti della S.C. – secondo cui la violazione del principio del ne bis in idem ricorre quando il fatto contestato sia giuridicamente identico nei propri elementi strutturali (condotta, evento, nesso causale, circostanze di tempo e di luogo), cosicché, indipendentemente dal nomen iuris attribuito, siano esattamente sovrapponibili, ma tali orientamenti mal si attagliano agli insegnamenti della Grande Camera CEDU (causa Serguei Zolotoukhine)- ribaditi con la sentenza Grande Stevens

– che, per l’identificazione dello “stesso fatto”, rifuggono dal criterio “giuridico”, adottando quello “storico – naturalistico”; in virtù di tale criterio, al fine di poter stabilire se i fatti oggetto dei due procedimenti sono gli stessi, è necessario determinare se il nuovo procedimento si basi su fatti che sono sostanzialmente identici, rispetto a quelli che sono stati oggetto della condanna definitiva, e nel caso concreto non vi è dubbio che la condotta del M., sotto il profilo storico – naturalistico, sia unica e si concretizzi nell’occultamento delle scritture e dei registri contabili , avvenuta per entrambe le fattispecie con riferimento al medesimo periodo di tempo, compreso tra il 2001 ed il 2006 e come dimostrato, peraltro, dal fatto che le fonti poste alla base di entrambe le sentenze di condanna sono costituite dall’originaria indagine di Finanza; né sotto altro profilo si potrebbe affermare che, in ipotesi, la normativa Europea consente di sanzionare gli illeciti tributari (quale potrebbe essere classificata la norma di cui all’art. 10 D.lgs. 74/2000), sia sotto il profilo fiscale, che quello penale, perché la Corte Europea di Giustizia (CGUE), in materia di imposta sul valore aggiunto, ha precisato che, in virtù del principio del ne bis in idem, uno Stato può imporre una doppia sanzione (fiscale e penale) per gli stessi fatti, solo a condizione che la prima sanzione non sia di natura penale;

– con il secondo motivo, l’incostituzionalità dell’art. 649 c.p.p. per violazione degli artt. 117 Cost., 50 e 51 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea e 4, protocollo 7 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo; invero, nell’ipotesi in cui dovesse ritenersi che la norma di cui all’art. 649 c.p.p. sia applicabile ai soli casi in cui si riscontri, tra la fattispecie “già giudicata” e quella “da giudicare”, la coincidenza di tutti gli elementi costitutivi del reato e dei beni giuridici tutelati, non operando, invece, in presenza del mero accertamento della coincidenza dei fatti oggetto delle successive e differenti imputazioni, che siano state analizzate ed esaminate nei due distinti procedimenti, risulta evidente la violazione dell’art. 117, comma primo, della Costituzione, nella parte in cui la formulazione del testo dell’articolo 649 c.p.p. non consente di rispettare i vincoli derivanti dall’Ordinamento Comunitario e dagli obblighi internazionali ed, in particolare, il disposto di cui agli artt. 50 e 51 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 4 protocollo 7, della Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo, sicché la norma deve essere sottoposta all’esame della Corte Costituzionale, al fine di verificarne la compatibilità con il dettato posto a fondamento del nostro Ordinamento;

– con il terzo motivo, l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale, con specifico riferimento all’art. 81 c.p.; invero, la corte d’ Appello di Cagliari, una volta escluso l’assorbimento, avrebbe dovuto palesare le ragioni per le quali non ha ritenuto dovesse applicarsi ai fatti oggetto delle due fattispecie la disciplina della continuazione, benché una richiesta in tal senso trasparisse dall’istanza depositata nell’ottobre 2015, avendo i fatti di cui alle ipotesi delittuose, la stessa attività posta in essere dal medesimo soggetto, nel medesimo arco temporale.

3. L’imputato, a mezzo del suo difensore, ha depositato motivi nuovi, con i quali ha rimarcato che i fatti a lui ascritti sono identici a quelli che hanno determinato la prima condanna definitiva, in violazione dell’art. 4 del prot. 7 CEDU ed ai principi CEDU.

4. All’udienza del 27.10.2016 questa Corte, letto l’art. 615/1 c.p.p., considerata la complessità delle questioni da decidere, ha differito la deliberazione alla data odierna.

Considerato in diritto

Il ricorso merita accoglimento limitatamente al trattamento sanzionatorio, laddove va respinto nel resto.

1. Le deduzioni del M. di cui ai primi due motivi di ricorso si incentrano sulla questione relativa alla violazione, nella fattispecie in esame, del principio del ne bis in idem ex art. 649 c.p.p., essendo stato il deducente già condannato, con sentenza divenuta definitiva, per il reato di cui all’articolo 10 D.lgs. n. 74/2000 (per avere, in qualità di legale rappresentante e socio accomandatario della “P.M. di P.M. & C. s.a.s.”, omesso l’esibizione dei documenti e dei registri contabili prescritti dalla normativa tributaria, riferiti alle annualità d’imposta 2001-2006, fatti accertati in Iglesias il 06.11.2006), laddove il procedimento in esame, ha ad oggetto, tra l’altro, il reato di bancarotta fraudolenta documentale, di cui all’art. 216 primo comma, n. 2 comma R.D. n. 267 del 1942, riguardante lo stesso fatto, ossia l’avere, in qualità di socio amministratore della società P.M. di P.M. s.a.s., dichiarata fallita dal Tribunale di Cagliari con sentenza del 5.1.2007, omesso di consegnare al curatore fallimentare tutta la documentazione contabile e omesso di presentare le dichiarazioni fiscali dal 2004, in maniera tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della predetta società.

2. Tale deduzione è infondata.

2.1. Va premesso che effettivamente l’imputato è stato condannato con sentenza della Corte d’Appello di Cagliari del 21.1.2013, divenuta definitiva, alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, per il reato di cui all’art. 10 D.L.vo n. 74/2000 per avere, in qualità di legale rappresentante e socio accomandatario della “P. M. di P.M. & e s.a.s.”, omesso l’esibizione dei documenti e dei registri contabili prescritti dalla normativa tributaria, riferiti alle seguenti annualità d’imposta: 2001, 2002, 2003, 2004, 2005 e 2006, al fine di evadere le imposte (acc. in Iglesias, il 6/11/06), come si evince dalle sentenze di merito depositate dall’imputato in data 15.10.2015, in uno alla sentenza della Corte di Cassazione di rigetto del ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari del 21.1.2013.

2.2. Sulla base di tali elementi occorre ora verificare se alla luce della giurisprudenza di legittimità e tenuto conto dei principi delle sentenze CEDU Grande Stevens c/Italia del 4.3.2014 e Serguei Zolotoukhine c. Russia, il reato di cui all’art. 10 D.L.vo n. 74/2000, per il quale l’imputato è stato già condannato con sentenza definitiva, può ritenersi “medesimo fatto” – ai sensi dell’art. 649 c.p. ed in base all’art. 4 protocollo n. 7 – di quello di cui all’art. 216 /I n. 2 L.Fall.

2.3. La Corte territoriale ha escluso la ricorrenza del ne bis in idem sostanziale, ritenendo all’uopo sufficiente raffrontare i capi d’accusa per rendersi conto della diversità dei fatti contestati: la condanna per il reato di cui all’ art. 10 riguardava l’omessa esibizione dei documenti dei registri contabili prescritti dalla normativa tributaria per le annualità d’imposta 2001-2006, al fine di evadere le imposte, mentre la condotta contestata nel presente procedimento, ai sensi dell’ art. 216/1 n. 2 L. Fall., consiste, invece, nell’avere omesso di consegnare al curatore fallimentare tutta la documentazione contabile e di presentare le dichiarazioni fiscali dal 2004 in maniera tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della medesima società fallita. In altri termini, un conto è non esibire la documentazione prescritta a fini tributari per evadere le imposte, altro è non consegnare al curatore fallimentare le scritture contabili e non presentare le dichiarazioni fiscali in maniera tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e degli affari di una società fallita.

Tale valutazione per quanto condivisibile nella conclusione in merito alla non identità dei fatti in questione, merita tuttavia delle precisazioni.

2.4. Sul punto, occorre innanzitutto evidenziare che più volte questa Corte, chiamata ad esprimersi sul rapporto intercorrente tra il reato di cui all’art. 10 del D.L.vo n. 74/2000 e quello di bancarotta fraudolenta documentale in relazione alla previsione contenuta nell’incipit del medesimo art. 10 (“salvo che il fatto costituisca più grave reato….”), ha evidenziato come non sussista la violazione del principio del “ne bis in idem” di cui all’art. 649 cod. proc. pen., qualora alla condanna per illecito tributario (nella specie per occultamento e distruzione di documenti contabili, previsto dall’art. 10 del D.Lgs. n. 74 del 2000) faccia seguito la condanna per bancarotta fraudolenta documentale, stante la diversità delle suddette fattispecie incriminatrici, richiedendo quella penal-tributaria l’impossibilità di ricostruire l’ammontare dei redditi, o il volume degli affari, intesa come impossibilità di accertare il risultato economico di quelle sole operazioni connesse alla documentazione occultata o distrutta; diversamente, l’azione fraudolenta sottesa dall’art. 216, n. 2 I. fall, si concreta in un evento da cui discende la lesione degli interessi creditori, rapportato all’intero corredo documentale, risultando irrilevante l’obbligo normativo della relativa tenuta, ben potendosi apprezzare la lesione anche dalla sottrazione di scritture meramente facoltative. Inoltre, nell’ipotesi fallimentare la volontà del soggetto agente si concreta nella specifica volontà di procurare a sé o ad altro ingiusto profitto o, alternativamente di recare pregiudizio ai creditori, finalità non presente nella fattispecie fiscale (Sez. 5, n. 16360 del 01/03/2011).

2.4.1. E’ stato altresì evidenziato in linea generale che i reati di cui al D.L.vo n. 74/2000 e quelli di bancarotta fraudolenta non regolano la “stessa materia” ex art. 15 cod. pen., data la diversità del bene giuridico tutelato (interesse fiscale al buon esito della riscossione coattiva, da un lato, ed interesse della massa dei creditori al soddisfacimento dei propri diritti, dall’altro), della natura delle fattispecie astratte e dell’elemento soggettivo (dolo specifico quanto alla prima, generico quanto alla seconda) (Sez. 3, n. 3539 del 20/11/2015 Rv. 266133).

2.5. Sempre in linea generale, poi, pur a seguito delle sentenze della Corte EDU indicate in premessa, questa Corte è orientata a ribadire il principio, secondo cui ai fini della preclusione connessa al principio del “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. 4, n. 3315 del 06/12/2016, Rv. 269223).

2.6. In tale contesto occorre, dunque, verificare se, come affermato dal ricorrente i principi delle sentenza Cedu sopraindicate debbano comportare, invece, una indubbia valutazione di identità sostanziale dei fatti in questione, con conseguente assorbimento del reato fiscale in quello di bancarotta, essendo quest’ultimo più grave.

2.6.1. Nella sentenza Grande Stevens c/ Italia del 4.3.2014 – dopo essere stati innanzitutto richiamati i principi enunciati dalla Grande Camera nella causa Serguei Zolotoukhine c. Russia – con i quali è stato affermato che è vietato perseguire una persona per un secondo «illecito» quando quest’ultimo è basato su fatti identici o fatti che sono in sostanza gli stessi e che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo «illecito», nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi- nel l’affronta re la questione specificamente oggetto della sentenza (violazione del ne bis in idem nel rapporto tra la sanzione amministrativa di cui all’art. 187 punto 1 D.Lgvo n. 58/98 ed il reato penale di cui all’art. 185 del medesimo D.Lgvo) – è stato, tra l’altro, evidenziato che “dinanzi alla CONSOB, i ricorrenti erano accusati, sostanzialmente, di non aver menzionato nei comunicati stampa del 24 agosto 2005 il piano di rinegoziazione del contratto di equity swap con la Merrill Lynch International Ltd mentre tale progetto già esisteva e si trovava in una fase di realizzazione avanzata (paragrafi 20 e 21 supra). Successivamente, essi sono stati condannati per tale fatto dalla CONSOB e dalla corte d’appello di Torino (paragrafi 27 e 35 supra). Dinanzi ai giudici penali, gli interessati sono stati accusati di avere dichiarato, negli stessi comunicati, che la Exor non aveva né avviato né messo a punto iniziative con riguardo alla scadenza del contratto di finanziamento, mentre l’accordo che modificava l’equity swap era già stato esaminato e concluso, informazione che sarebbe stata tenuta nascosta allo scopo di evitare un probabile crollo del prezzo delle azioni FIAT (paragrafo 40 supra). Secondo la Corte, si tratta chiaramente di una unica e stessa condotta da parte delle stesse persone alla stessa data. Peraltro la stessa corte d’appello di Torino, nelle sentenze del 23 gennaio 2008, ha ammesso che gli articoli 187 ter e 185 punto 1 dei decreto legislativo n. 58 del 1998 avevano ad oggetto la stessa condotta, ossia la diffusione di false informazioni (paragrafo 34 supra). Di conseguenza, la nuova azione penale riguardava un secondo «illecito», basato su fatti identici a quelli che avevano motivato la prima condanna definitiva. Questa constatazione è sufficiente per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7”.

2.6.2. Nella recente sentenza del 15 novembre 2016, A e B c/ Norvegia, è stato affermato che non viola il ne bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale e l’irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia già stato sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa purché sussista tra i due procedimenti una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”. Secondo tale principio il divieto di cui all’art. 4 prot. 7 CEDU varrebbe in maniera assoluta rispetto ai procedimenti consecutivi per lo stesso fatto (e cioè in quelle situazioni in cui il secondo procedimento venga avviato dopo la conclusione del primo), mentre andrebbe declinato in maniera meno stringente nell’ipotesi in cui i due procedimenti siano paralleli. Tale principio riprende altri affermati in passato, secondo cui non sussiste violazione dell’art. 4 prot. 7 quando tra i due procedimenti (tributario e penale) esiste una “connessione”, tale da far sì che le due sanzioni possano essere considerate parti di un’unica reazione sanzionatola apprestata dall’ordinamento contro l’illecito rappresentato dall’evasione fiscale e non come due distinti processi contro il medesimo fatto.

2.6.3. Le pronunce della CEDU innanzi indicate – ed in particolare quella Grande Stevens c/ Italia addotta dal ricorrente per sostenere che il principio del ne bis in idem in materia penale, enunciato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, ha un campo applicativo diverso e più favorevole all’imputato del corrispondente principio recepito dall’art. 649 cod. proc. pen. – devono, tuttavia, senz’altro essere lette in relazione ai principi espressi dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 31/05/2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., proprio in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. Ha evidenziato la Corte Costituzionale, per quanto rileva in questa sede, tra l’altro che:

– se è vero che appare ormai pacifico che la Convenzione recepisce, nell’interpretare il principio del ne bis in idem (che vieta di perseguire o giudicare per un secondo illecito una persona già condannata o sanzionata per gli stessi fatti), il più favorevole criterio dell’ idem factum, anziché la più restrittiva nozione di idem legale, il “fatto”, di per sé, va definito secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento e non quella di un eventuale approccio epistemologico, perché l’approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario; fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi;

– non vi è, in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente e la scelta tra le possibili soluzioni è di carattere normativo perché ognuna di esse è compatibile con la concezione dell’idem factum; nell’ambito della CEDU, una volta chiarita la rilevanza dell’ idem factum, è perciò essenziale rivolgersi alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, per comprendere se esso si restringa alla condotta dell’agente, ovvero abbracci l’oggetto fisico, o anche l’evento naturalistico;

– né la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, né le successive pronunce della Corte EDU recano l’affermazione che il fatto va assunto, ai fini del divieto di bis in idem, con esclusivo riferimento all’azione o all’omissione dell’imputato; certo è che, perlomeno allo stato, la giurisprudenza europea, che «resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata» (sentenza n. 236 del 2011), non permette di isolare con sufficiente certezza alcun principio (sentenza n. 49 del 2015), alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen., ove si escluda l’opzione compiuta con nettezza a favore dell’idem factum (questa sì, davvero espressiva di un orientamento sistematico e definitivo); in particolare, non solo non vi è modo di ritenere che il fatto, quanto all’art. 4 del Protocollo n. 7, sia da circoscrivere alla sola condotta dell’agente, ma vi sono indizi per includere nel giudizio l’oggetto fisico di quest’ultima, mentre non si può escludere che vi rientri anche l’evento, purché recepito con rigore nella sola dimensione materiale;

– il difetto di una giurisprudenza europea univoca, tale da superare la sporadicità di decisioni casistiche orientate da fattori del tutto peculiari della fattispecie concreta, libera l’interprete dall’obbligo di porre alla base della decisione un contenuto della normativa interposta ulteriore, rispetto al rilievo storico-naturalistico del fatto; in particolare, non interessa porre a raffronto i livelli di tutela offerti dalla CEDU e dal diritto nazionale, ma piuttosto trarre conferma che la prima non obbliga, neppure sul piano logico-sistematico, a optare in ogni caso per la concezione di medesimo fatto più favorevole all’imputato, posto che la garanzia del ne bis in idem non assume tratti di assolutezza, né nel testo dell’art. 4 del Protocollo n. 7, né nell’interpretazione consolidata tracciata dalla Corte di Strasburgo; resta, in definitiva, assodato che, allo stato la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente;

– Costituzione e CEDU si saldano nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico, e ripudiano l’intorbidamento della valutazione comparativa in forza di considerazioni sottratte alla certezza della dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio; le sempre opinabili considerazioni sugli interessi tutelati dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i diversi reati, oggetto dei successivi giudizi, non si confanno alla garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem e sono estranee al nostro ordinamento;

– l’identità del “fatto” sussiste – secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 28 giugno 2005, n. 34655) – quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona» (sentenza n. 129 del 2008) ed è in questi termini, e soltanto in questi, in quanto segnati da una pronuncia delle sezioni unite, che l’art. 649 cod. proc. pen. vive nell’ordinamento nazionale; e si tratta di un’affermazione netta e univoca a favore dell’idem factum, sebbene il fatto sia poi scomposto nella triade di condotta, nesso di causalità, ed evento naturalistico;

– al fine di valutare l’identità del fatto il giudice è tenuto a porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione; sulla base della triade condotta – nesso causale – evento naturalistico, il giudice può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica (sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un’unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico, ove invece tale giudizio abbia riguardato anche quella persona occorrerà accertare se la morte o la lesione siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell’imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei suoi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, per il grado e per le circostanze).

2.7. I principi affermati dalla Corte Costituzionale appaiono decisivi per affrontare anche la questione oggetto del presente giudizio, avendo la sentenza n. 200 dato atto di alcuni snodi essenziali nell’approccio alla tematica del ne bis in idem, anche alla luce dei principi comunitari, tra cui: l’adozione del concetto dell’ idem factum (anziché della più restrittiva nozione di idem legale), da definire secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, non consentendo la giurisprudenza europea di isolare con sufficiente certezza alcun principio alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen. (esclusa ovviamente l’opzione compiuta a favore dell’idem factum), l’idem factum si configura quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, tenuto conto dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 28 giugno 2005, n. 34655).

2.8. Alla stregua di tali principi deve osservarsi come nella fattispecie in esame non ricorra alcuna “identità del fatto” tra l’ipotesi di cui all’art. 10 D.L.vo n. 74/2000, per il quale l’imputato è stato già condannato, e quella di cui all’art. 216/1 n. 2 L.Fall., essendo diverso il fatto storico – naturalistico oggetto delle due incolpazioni. Invero, in linea generale l’art. 10 del D.L.vo n. 74/2000 punisce la condotta di occultamento o distruzione al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari, laddove la bancarotta fraudolenta documentale di cui all’art. 216/1 n. 2 L. Fall. punisce plurime condotte riconducibili ad un articolato di illeciti più ampio, riconducibile non solo alla sottrazione o distruzione, ma alla falsificazione dei libri o delle altre scritture contabili, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, ovvero la tenuta di essi in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

2.8.1. In particolare, anche a voler operare un raffronto limitato alle sole condotte di sottrazione o distruzione, neppure può farsi questione di identità dei fatti per plurime ragioni. Innanzitutto, l’art. 10 del D.L.vo n. 74/2000 indica quale oggetto della condotta le “scritture contabili” o i “documenti di cui è obbligatoria la conservazione” ai fini fiscali, che comprendono non solo quelle formalmente istituite in ossequio a specifico dettato normativo, ma anche quelle obbligatorie in relazione alla natura ed alle dimensioni dell’impresa (es. libro cassa, scritture di magazzino, scadenzario et similia), nonché la corrispondenza posta in essere nel corso dei singoli affari, il cui obbligo di conservazione deve farsi risalire all’art. 22, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 (Sez. 3, n. 1377 del 01/12/2011). La bancarotta fraudolenta documentale ha ad oggetto, invece, i libri previsti obbligatoriamente dall’art. 2214 c.c. (in primis libro giornale e libro degli inventari), nonché le scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa – indipendentemente dall’obbligo di conservazione fiscale – che consentano, tuttavia, la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. Come già evidenziato l’azione fraudolenta sottesa dall’art. 216 primo comma n. 2 I. fall, si concreta in un evento da cui discende la lesione degli interessi creditori, rapportato all’intero corredo documentale, risultando irrilevante l’obbligo normativo della relativa tenuta, ben potendosi apprezzare la lesione anche dalla sottrazione di scritture meramente facoltative (Sez. 5, n. 16360 del 01/03/2011).

2.8.2. Va, inoltre, considerato che il reato di bancarotta fraudolenta ricorre sempre che sia intervenuto il fallimento e la sentenza dichiarativa di fallimento è un elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta (Sez. 5, n. 46182 del 12/10/2004).

2.8.3. Senza considerare, poi, che il reato di cui all’art. 10 del D.L.vo n. 74/2000 implica l’interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente, sanzionando l’obbligo di non sottrarre all’accertamento le scritture ed i documenti obbligatori (Sez. 3, n. 3057 del 14/11/2007) per la ricostruzione del volume d’affari o dei redditi, laddove l’art. 216 implica la tutela del ceto creditorio.

2.8.4. L’evento, poi, dei due reati del pari differisce, determinando la bancarotta fraudolenta I’ impossibilità di ricostruire il patrimonio o il movimento degli affari, mentre il reato di cui all’art. 10 i redditi od il volume di affari.

3. In definitiva sulla base di tutti gli elementi elencati deve concludersi nel senso che i due “fatti” illeciti a confronto non sono i medesimi, sicché non potendo applicarsi nella fattispecie l’incipit dell’art. 10, con conseguente assorbimento del meno grave reato fiscale in quello fallimentare, i due fatti – reato concorrono.

L’indagine che il giudice delle leggi ha indicato nella sentenza n. 200/2016 come quella in base alla quale può essere accertata l’identità dei fatti – ossia mettendo a confronto i fatti storici al fine di verificare la coincidenza di condotta, nesso causale ed evento naturalistico – non può concludersi positivamente per quanto evidenziato, determinando l’applicazione nei confronti dell’imputato di entrambe le fattispecie.

4. Neppure, del resto, può porsi nella fattispecie – così come paventato dal ricorrente una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., per i profili dallo stesso segnalati, avendo già la Corte Costituzionale indicato l’interpretazione più adeguata dell’idem factum, anche alla luce della giurisprudenza di legittimità.

5. Concorrendo, dunque, il reato di bancarotta fraudolenta fallimentare con quello di cui all’art. 10 del D.L.vo n. 74/2000 fondata si presenta la deduzione del ricorrente di cui al terzo motivo, secondo cui la Corte di Appello di Cagliari, una volta escluso l’assorbimento, avrebbe dovuto palesare le ragioni per le quali non poteva trovare applicazione la disciplina della continuazione, tra i due fatti attribuiti all’imputato sviluppatisi in un contesto temporale in buona parte sovrapponibile.

6. La sentenza impugnata, pertanto, sul punto, ossia in merito all’applicabilità dell’art. 81 c.p. nella fattispecie in esame e quindi in merito al trattamento sanzionatorio va annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di Cagliari

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio ad altra sezione della Corte d’appello di Cagliari. Rigetta nel resto.

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