Corte di Cassazione

26 Aprile 2019

Cass. Pen., sez. III, sentenza 28 aprile 2016 n. 17418

Corte di Cassazione, III Sezione penale, sentenza 28 aprile 2016, n. 17418

1. Con sentenza emessa in data 24/02/2014 la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del tribunale di Arezzo del 10 gennaio 2013, dichiarava non doversi procedere nei confronti di T.P. per i fatti antecedenti al 31/10/2005 in quanto estinti per prescrizione, riducendo la pena ad 1 anno e 7 mesi di reclusione per i reati di concorso con tale C.G., quale professionista incaricato di curare la contabilità di varie aziende commerciali, prospettato a P.F. (capo a) e N.M. (capo b), la possibilità di procurare fatture per operazioni inesistenti emesse dall’impresa C.G., emettendo fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti materialmente rilasciate dalla Linea Argenti di C.G. nei confronti sia della L.o. della P. che della M.P. della N. (fatti contestati come commessi, quello sub a), dall’ottobre 2002 al novembre 2005 – dunque parzialmente coperto dalla declaratoria di prescrizione fino al 31/10/2006 – e, quello sub b), invece interamente coperto dalla declaratoria di proscioglimento in appello per prescrizione, dall’agosto al novembre 2003).

2. Ha proposto ricorso il T.P. a mezzo dei difensori fiduciari cassazionisti, impugnando la sentenza predetta con cui deduce tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. e) cod. proc. pen., sotto il profilo della manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione e travisamento del fatto e della prova nonché per omessa applicazione dei criteri di cui all’art. 192 (e non 392, refuso evidente contenuto nel ricorso) cod. proc. pen. in relazione alla chiamata in correità del ricorrente.

In sintesi, si duole il ricorrente in quanto la Corte d’appello avrebbe anzitutto errato nel ricostruire i fatti, laddove afferma che presso il ricorrente erano stati rinvenuti assegni della L.A. del C. e che il ricorrente tenesse la contabilità di quest’ultimo; ciò sarebbe confermato anche dalla perquisizione presso il T. presso cui vennero rinvenute fatture emesse dal C. e utilizzate dal P. e dalla N., contabilizzate dal ricorrente in ragione della propria attività professionale; sarebbe quindi stato violato l’art. 192 cod. proc. pen. in quanto la Corte d’appello fonderebbe il giudizio di condanna su un presupposto di fatto fallace, affermando che la questione della tenuta della contabilità del C. da parte del ricorrente non rileverebbe, trattandosi della spiegazione data dal C. circa i precedenti rapporti con il T.; dopo aver richiamato le dichiarazioni dei correi P. e N. nonché quelle rese dallo stesso C., il ricorrente si duole della motivazione della sentenza secondo cui non sarebbe stata dimostrata la mancanza di debiti IVA delle due imprese, e che, in ogni caso, era stato ottenuto l’abbattimento dell’imponibile per effetto dei maggiori costi fittiziamente sostenuti; inoltre, si affermava dalla Corte d’appello che la non corrispondenza dei singoli assegni all’IVA delle fatture aveva scarso significato, ben potendo essere motivata dall’esigenza di non far notare l’anomalia e, comunque, non essendo l’importo dei titoli superiore a quello dell’IVA complessivamente risultante dalle fatture; secondo il ricorrente tale affermazione svilirebbe il criterio di valutazione della prova ed il giudizio di rilevanza della stessa, ma soprattutto il criterio di inferenza, non essendoci elementi oggetto di riscontro alle dichiarazioni dei correi; non sarebbe idoneo a superare l’impasse, la circostanza che nel personal computer del T. siano stati rinvenuti i files della fatture asseritamente false della L.A., in quanto ciò sarebbe spiegabile perché dette fatture erano state contabilizzate dalle clienti del T., il cui lavoro richiede l’acquisizione dei dati delle fatture delle clienti medesime per la successiva contabilizzazione.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 157 e 159 cod. pen.

In sintesi, si duole il ricorrente in quanto i fatti sarebbero già stati prescritti all’atto della sentenza d’appello; si contesta il rinvio disposto dall’udienza del 3/05/2012 al 10/01/2013 su istanza del difensore, in quanto ritenuto eccessivo e comunque osservandosi come le ipotesi di sospensione non dovrebbero essere dilatate oltre il termine di prescrizione massima, come avvenuto in questo caso.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. e) cod. proc. pen., sotto il profilo della manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

In sintesi, si duole il ricorrente in quanto le attenuanti generiche sarebbero state negate solo sulla base delle dichiarazioni dei coimputati e per la particolare capacità a delinquere; non si sarebbe tenuto conto di ulteriori fattori attenuanti valutabili a favore del ricorrente, indicati in ricorso.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.

4. Ed invero, la sentenza impugnata motiva puntualmente su tutti i profili di doglianza sollevati dalla difesa, evidenziando in particolare una serie di elementi che vengono invece pretermessi in sede di ricorso da parte del T. (in particolare, la circostanza che non sussistessero elementi per ritenere l’esistenza di un accordo tra i dichiaranti a detrimento del T.; la rilevanza del fatto che presso il T. vennero rinvenuti numerosi assegni rilasciati dalle due imprenditrici, P. e N., intestati a “me medesimo” poi materialmente nella disponibilità del T. che non vi apponeva alcuna firma di gira, così da evitare di apparire come intermediario e prenditore formale dei titoli; la conoscenza del C. da parte del T. e, in particolare, del fatto che questi fosse un imprenditore edile e non “argentiere”, ciò che rendeva evidente la consapevolezza della falsità delle fatture emesse dalla ditta L.A. del C.; la puntuale confutazione da parte della Corte d’appello delle censure difensive, che appare non manifestamente illogica e non fondata su presunti elementi di contraddittorietà).

Non va, poi, dimenticato come non v’è alcun dubbio nella giurisprudenza di questa Corte in ordine alla configurabilità concorsuale del professionista incaricato della tenuta della contabilità, dovendosi infatti ribadire la configurabilità del concorso nel reato di frode fiscale di coloro che – pur essendo estranei e non rivestendo cariche nella società cui si riferisce la emissione di fatture per operazioni inesistenti – abbiano, in qualsivoglia modo, partecipato a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito alle utilizzatrici delle f.o.i. emesse dalla società cartiera del C. di potersi procurare fatture passive da inserire in dichiarazione per abbattere l’imponibile societario, non rilevando peraltro la prova dell’effettivo inserimento in dichiarazione delle medesime stante la natura di reato di pericolo del delitto di cui all’art. 8, d. Igs. n. 74 del 2000 che punisce la sola emissione o rilascio delle fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, a differenza della speculare previsione dell’art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000 che non richiede solo l’avvalersi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ma anche, e soprattutto, l’indicazione in una delle dichiarazioni relative a dette imposte di elementi passivi fittizi (v., sulla responsabilità del professionista in consimili ipotesi: Sez. 3, sentenza n. 19335 del 2015, ric. Magistroni, non massimata).

Non è quindi ravvisabile il dedotto vizio motivazionale, dovendosi qui ricordare che in tema di controllo logico della motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, se abbiano seguito i canoni legali in materia di valutazione delle prove e se gli stessi giudici abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.

In tale prospettiva, il sindacato demandato a questa Corte di legittimità deve essere esercitato sulle proposizioni contenute nel testo del provvedimento e sulla coordinazione argomentativa che rappresenta il tessuto logico della motivazione al fine di verificare se le premesse scaturite dalle valutazioni di merito siano legate da un nesso di consequenzialità logica con le conclusioni accolte, con esclusione della possibilità, in assenza di vizi logici e giuridici, di prospettare soluzioni interpretative alternative a quella scelta dai giudici di merito (Sez. 1, n. 7113 del 06/06/1997 – dep. 21/07/1997, Eminoglu ed altri, Rv. 208241). Controllo della logicità motivazionale, in questa sede, agevolmente superato dalla sentenza impugnata che ha dato puntualmente conto delle ragioni dell’inattendibilità della tesi difensiva e della inidoneità della prospettazione alternativa del ricorrente a inficiare il costrutto argomentativo accusatorio.

5. Non miglior sorte meritano i restanti motivi di ricorso.

6. Ed invero, quanto alla presunta erroneità in ordine alla mancata declaratoria di prescrizione, corretta è l’affermazione della Corte d’appello che ha considerato, ai fini del computo del termine di prescrizione, il periodo di sospensione di 301 giorni – motivato, dal 10 marzo 2010 al 28 aprile 2010, dall’adesione del difensore all’astensione proclamata dalla categoria professionale di appartenenza, e, dal 3 maggio 2012 al 10 gennaio 2013, dalla richiesta del difensore di rinviare la discussione -, non potendosi dolere dell’aver il giudice, in tal ultimo caso, disposto il rinvio di 252 giorni nonostante si fosse trattato di una richiesta difensiva motivata dall’ora tarda e dalla necessità del difensore di rientrare a Milano.

Ed invero, l’interpretazione dell’art. 159 cod. pen., per come affermatasi sin dalle celeberrime decisioni delle Sezioni Unite Cremonese e Petrella (Sez. U, n. 1021 del 28/11/2001 – dep. 11/01/2002, Cremonese, Rv. 220509; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003 – dep. 10/12/2003, Petrella, Rv. 226075), è nel senso che, a differenza di quanto avveniva nel vigore del codice di rito abrogato (laddove si era in presenza di sistema processuale che, per un verso, affidava alla prevalente iniziativa del giudice le sorti del processo e, per altro verso, tendeva a limitarne il potere, rendendo possibile un controllo, peraltro quasi esclusivamente passivo, delle parti), oggi il processo vive prevalentemente delle iniziative non solo istruttorie delle parti anche private, che hanno il potere di contribuire autonomamente a determinare tempi, modalità e contenuti delle attività processuali. Le parti non hanno più solo poteri limitativi dell’autorità del giudice, ma condividono con il giudice la responsabilità dell’andamento del processo. E debbono assumersi conseguentemente gli oneri connessi all’esercizio dei loro poteri, ma con il riconoscimento altresì dell’essenzialità del loro contributo al contraddittorio, cui si ritiene affidata l’attendibilità della giurisdizione.

Ne discende quindi il formarsi di un criterio di particolarità della previsione delle ipotesi di sospensione rilevanti ai fini della prescrizione, criterio che, evidentemente legato a un raccordo strettamente testuale tra i due coevi codici del 1930, certamente vale ancora a escludere l’incidenza sulla prescrizione delle sospensioni consentite in via generale dall’art. 477, comma secondo, cod. proc. pen. come di quelle previste dall’analogo art. 431, comma secondo, codice abrogato. Criterio che, tuttavia, deve essere integrato, in funzione garantistica, con il criterio della imputabilità del rinvio che, oltre a permettere la necessaria esclusione della rilevanza di ipotesi di rinvio per esigenze istruttorie, accresce altresì la specificità del concetto di sospensione rilevante ai fini della prescrizione. Sicché può essere soddisfatta in termini meno casuali di quelli “topografici”, ricevuti dal codice abrogato, l’esigenza di “particolarità”, posta dall’art. 159, cod. pen., della previsione delle ipotesi di sospensione o di rinvio del procedimento cui consegue l’effetto sostanziale della sospensione dei termini della prescrizione.

In particolare, deve ritenersi che escludano l’imputabilità della sospensione o del rinvio sia l’esercizio del diritto alla prova sia, più in generale, l’esercizio del diritto alla difesa, inteso quest’ultimo nel senso delle disposizioni che impongono di riconoscere al difensore un termine “per prendere cognizione degli atti o per informarsi sui fatti oggetto del procedimento” (art. 108 c.p.p.) o, in generale, alla parte un termine per approntare la difesa (art. 184, 451, 519 c.p.p.). Sicché, deve escludersi la addebitabilità all’imputato o al suo difensore della sospensione o del rinvio destinati ad assecondare la funzione cognitiva del processo: secondo l’esemplificazione contenuta nell’art. 304, comma primo, lettere a) e b) c.p.p., che peraltro non è esaustiva (v. ad es. art. 71 c.p.p.); e in una prospettiva già in parte anticipata, sia pure in un contesto meramente emergenziale, dall’art. 16 della legge 22 maggio 1975, n. 152.

A questo principio di garanzia deroga ad esempio, confermandone peraltro la validità sul piano generale, la disposizione transitoria dettata dall’art. 18, comma quinto, della legge 5 ottobre 2001, n. 367, che In via eccezionale prevede la sospensione dei termini di prescrizione anche quando la sospensione o il rinvio del procedimento o del dibattimento derivi dall’esigenza di rinnovare acquisizioni probatorie, ma solo in quanto la rinnovazione sia resa necessaria dalla sopravvenuta nullità o inutilizzabilità di commissioni rogatorie che erano conformi alla disciplina vigente all’epoca del loro espletamento.

Ne discende, pertanto, che – al di fuori di dette ipotesi in cui il rinvio sia motivato da esigenze istruttorie o per garantire l’esercizio del diritto di difesa – in tutte le altre ipotesi il giudice resta arbitro di valutare, conformemente alle esigenze di autoorganizzazione del proprio ruolo, l’individuazione di una data cui rinviare l’udienza ove la richiesta di differimento sia motivata da esigenze personali del difensore non legate nemmeno indirettamente all’esercizio di facoltà difensive (dovendo certamente ritenersi rispettato il diritto di difesa nel momento stesso in cui, avanzata una richiesta di rinvio per “ora tarda”, il giudice aderisca alla richiesta, così garantendo appieno l’esigenza del difensore di tutelare il diritto costituzionalmente garantito alla difesa ex art. 24 Cost., non potendo poi dolersi del fatto che il rinvio, da lui stesso richiesto, sia eccessivo, contemperandosi infatti, mediante la previsione che il corso della prescrizione rimanga sospeso per tutta la durata del differimento, da un lato, l’interesse del difensore ad ottenere un differimento del processo per l’ora tarda, e, dall’altro, l’esigenza di evitare il pregiudizio derivante dal ritardo nella definizione del processo di cui si richiede il rinvio non motivato da esigenze istruttorie o in generale non destinato ad assecondare la funzione cognitiva del processo).

7. Quanto, infine, alla censura di mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, la Corte d’appello motiva adeguatamente il diniego, valutando negativamente ai sensi dell’art. 133 cod. pen. proprio la capacità a delinquere del colpevole (art. 133, comma secondo, cod. pen.) valorizzando a tal proposito sia il numero delle violazioni poste in essere ed il perdurare nel tempo della condotta illecita (che, lo si noti solo per completezza, denotano negativamente, a prescindere dalla declaratoria di proscioglimento per prescrizione per la gran parte dei periodi oggetto di valutazione, il comportamento del ricorrente, atteso che la serialità degli atti, tutti riconosciuti quali elementi costitutivi dell’azione criminosa di cui all’art. 8 citato, ben consente al giudice di operare una valutazione negativa delle concrete modalità di comportamento del reo). Né, peraltro, merita censure la motivazione della corte territoriale per non aver invece preso in esame fattori attenuanti alternativi.

Ed infatti, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008 – dep. 14/11/2008, Caridi e altri, Rv. 242419).

E sul punto la motivazione della Corte d’appello non merita censura.

6. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile. Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di somma che si stima equo fissare, in euro 1000,00 (mille/00).

7. Solo per completezza, deve qui rilevarsi che non spiega alcun effetto l’intervenuto decorso integrale del termine di prescrizione alla data del 25 aprile 2014, a seguito del computo delle predette sospensioni ex art. 159 cod. pen.

E’ pacifico infatti nella giurisprudenza di questa Corte che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005 – dep. 22/06/2005, Bracale, Rv. 231164; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000 – dep. 21/12/2000, De Luca, Rv. 217266; nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso, come nel caso in esame, essendo infatti stata pronunciata la sentenza d’appello in data 24/02/2014).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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