Corte di Cassazione

26 Aprile 2019

Cass. Civ., sez. Un., sentenza 21 aprile 2016 n. 8059

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 21 aprile 2016, n. 8059

Svolgimento del processo

1. – L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, depositata il 24 luglio 2010, intervenuta in controversia scaturita dall’impugnazione, promossa da contribuente già esercente la professione di architetto, di avviso di accertamento irpef, irap ed iva relative all’anno 2002.

2. – Rigettando l’appello dell’Agenzia e confermando la decisione impugnata, la commissione regionale aveva, per quanto ancora rileva, affermato l’illegittimità del recupero iva operato dall’Agenzia su compenso da attività professionale conseguito dal contribuente dopo la cessazione del relativo esercizio e la dismissione della partita iva.

I giudici del gravame avevano, in particolare ritenuto che – avendo il contribuente cessato l’esercizio della sua attività professionale nel 1997 e, dunque, anteriormente al conseguimento, avvenuto nel 2002, del relativo compenso – la somma al riguardo percepita non era assoggettabile ad iva, difettando, al momento della riscossione, il presupposto soggettivo dell’imposta previsto dal combinato disposto dagli artt. 1 e 5, comma 1, d.p.r. 633/1972 (nella specie: la qualifica di professionista). Con ciò, conseguentemente, postulando che i compensi percepiti dal professionista, dopo la cessazione dell’attività, sono assoggettabili solo ad irpef, quali redditi diversi di cui all’art. 67, lett. 1, d.p.r. 917/1986.

3. – Con l’unico motivo di ricorso, l’Agenzia – deducendo violazione degli artt. 5, comma 1, e 21 d.p.r. 633/1972 nonché falsa applicazione dell’art. 6 del medesimo testo normativo – ha censurato la decisione impugnata per non aver considerato che una prestazione di servizi, se imponibile a fini iva al momento della sua esecuzione, resta necessariamente tale, anche se il pertinente corrispettivo venga conseguito successivamente alla cessazione dell’attività professionale nel cui ambito la prestazione è stata posta in essere ed alla conseguente perdita della soggettività iva da parte del percipiente, giacché tale evenienza non è idonea a sottrarre il compenso di pregressa attività professionale al regime impositivo proprio di questa.

Il contribuente non ha svolto difese.

4. – Fissata per la decisione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis, comma 3, c.p.c. e, quindi, rinviata alla udienza pubblica, a seguito di ordinanza interlocutoria della sottosezione tributaria della sesta sezione civile (ord. 24432/14), la causa è stata rimessa a queste Sezioni unite, per l’esame – quale questione di massima di particolare importanza – del punto focale della controversia: se il compenso di prestazione professionale percepito dopo la cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, e la relativa formalizzazione è o non imponibile a fini iva.

Motivi della decisione

I) La notifica del ricorso per cassazione introduttivo del presente giudizio di legittimità è stata eseguita, ai sensi dell’art. 4 l. 53/1994 e 55 69/2009, a mezzo del servizio postale.

Pur essendo allegata al ricorso la ricevuta di spedizione della raccomandata con la quale il ricorso per cassazione è stato spedito ai fini della notifica, non risulta acquisito agli atti il corrispondente avviso di ricevimento.

Sulla base di tale rilievo e non essendosi costituito l’intimato, s’impone la declaratoria d’inammissibilità del ricorso.

Costituisce, infatti, ius receptum il principio – affermato da queste Sezione Unite, con la sentenza n. 627/08, e, di seguito, costantemente osservato (v., tra le altre, Cass. 26108/15, 14780/14, 13923/11, 9453/11, 8497/10, 1694/09) – secondo cui, nelle notificazioni eseguite a mezzo del servizio postale, in difetto di costituzione dell’intimato, l’omessa allegazione al ricorso dell’avviso di ricevimento del plico postale (unico documento atto a dimostrare il perfezionamento della notificazione) ed il suo mancato deposito nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c. o all’udienza di cui all’art. 379 c.p.c., comporta l’inammissibilità del ricorso, non ricorrendo i presupposti né per la concessione di un termine per il deposito né per la rinnovazione della notificazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c.

II) Nonostante la riscontrata inammissibilità del ricorso, la rilevanza della questione immanente al merito della controversia e rimessa all’esame di queste Sezioni unite e la sua problematicità, evidenziata dall’ordinanza interlocutoria ed attestata dallo stesso tormentato iter processuale della lite nella presente fase di legittimità, inducono a pronunziare in proposito, ai sensi dell’art. 363, commi 3 e 4, c.p.c., per l’esigenza nomofilattica di rimuovere incertezze e prevenire contrasti interpretativi.

IlI) 1. – Nell’indicata prospettiva, va, in primo luogo, osservato che, ai sensi degli artt. 1 e ss. d.p.r. 633/1972, l’obbligazione tributaria in campo iva e quindi, l’imponibilità a detti fini sono ricollegate (a parte il caso delle “importazioni”) al concorso di due presupposti: uno, di natura oggettiva, costituito dalla realizzazione, nel territorio dello Stato, di operazioni di ”cessione di beni” a titolo oneroso ovvero di “prestazione di servizi” verso corrispettivo; l’altro, di natura soggettiva, consistente nel possesso, da parte di chi pone in essere alcuna delle operazioni sopra menzionate, della qualità di imprenditore o di quella di esercente arte o professione.

2.1 – Muovendo dalla “premessa indiscussa” che, per le prestazioni di servizi, il verificarsi del presupposto oggettivo dell’imposizione iva coincide di regola, non con il momento della relativa materiale esecuzione, ma con quello del pagamento totale o parziale del corrispettivo per esse convenuto (anche se successivo a detta esecuzione), l’ordinanza interlocutoria individua il punctum dolens della proposta questione esegetica nell’’identificazione del dato di temporale rilevanza della cessazione dell’attività economica (nella specie: professionale) che giustifica l’imposizione iva, quale presupposto soggettivo del tributo ai sensi degli artt. 1, 4 e 5 d. p.r. 633/1972.

2.2.1 – L’impostazione dell’ordinanza interlocutoria e la sua premessa scontano il rilievo che il d.p.r. 633/1972 (dopo aver, all’art. 1, collegato, sul piano oggettivo, l’imponibilità a fini iva, in particolare, alle operazioni di cessioni di beni ed a quelle di prestazioni di servizi) dispone all’art. 6, che – mentre le operazioni di cessione di beni, in assenza di fattura o di pagamento, vanno, in linea di principio e salve le deroghe di cui al comma 2, temporalmente ricollegate al momento della loro esecuzione (cfr. commi 1, 2 e 4) – le prestazioni di servizi, in assenza dì anteriore fattura, “si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo” (cfr. commi 3 e 4), Ciò, peraltro, solo di regola e ad eccezione che per le prestazioni di servizi compiute per l’uso personale o familiare dell’imprenditore ovvero a titolo gratuito per finalità estranee all’impresa ovvero ancora (in esito all’introduzione del sesto comma della disposizione ad opera della l. 217/2011) per le prestazioni di servizi resi in ambito transazionale; prestazioni tutte, in merito alle quali rileva, invece, il momento della relativa esecuzione.

2.2.2 – A conforto di quanto sostenuto, vengono evocati precedenti di questa Corte (specificamente:

Cass. 13209/09, 3976/09), in cui, sul presupposto che “l’art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972 pone una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della percezione del corrispettivo e quella di esecuzione della prestazione di servizi”, si afferma che, a fini iva, rileva di regola (e salvo il caso di precedente emissione di fattura), non la data in cui la prestazione è stata storicamente eseguita, bensì quella della percezione del correlativo corrispettivo.

2.2.3 – A tale ultimo proposito, merita, peraltro, subito osservare che, per quanto si dirà in seguito a proposito della concettuale distinzione tra la nozione di imponibilità a fini iva e quella di esigibilità dell’imposta medesima (v. infra sub n. 3), più che nelle decisioni richiamate – che, ponendo la riportata affermazione quale presupposto della negazione dell’attualità dell’obbligo di fatturazione e di quello di versamento del tributo in assenza di riscossione del corrispettivo della prestazione eseguita, ne rapportano, in concreto, la valenza alla nozione di esigibilità dell’imposta piuttosto che a quella d’imponibilità – l’assunto di partenza dell’ordinanza interlocutoria sembra trovare conforto in più remota decisione (Cass. 11150/95), che, identificando in funzione dell’affermazione in rassegna la normativa applicabile in ipotesi di successione di leggi in tema di criteri di definizione della base imponibile, ha discriminato, in funzione del momento del pagamento della prestazione (anziché di quello della sua esecuzione), proprio l’applicazione del nuovo regime d’imponibilità.

3.1 – L’impostazione che l’ordinanza interlocutoria dà alla questione rimessa e la sua premessa non sono condivisibili.

3.2 – La lettura dell’art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972, nel senso che, per le prestazioni di servizio, il presupposto oggettivo dell’imponibilità a fini iva si verifica di regola, non con l’esecuzione della prestazione, ma con il successivo pagamento totale o parziale del corrispettivo correlativamente pattuito, si rivela, invero, in evidente, inammissibile, contrasto con la disciplina comunitaria dell’iva, di cui il d.p.r. 633/1972 costituisce trasposizione.

3.3.1 – Infatti, sia la sesta direttiva iva 77/388/Cee (agli artt. 10, comma 1 e 2) sia l’attuale direttiva iva 2006/112/Ce (agli artt. 62, 63 e 66) distinguono in relazione all’imposta tre diversi momenti: a) quello del “fatto generatore” dell’imposta e, cioè, dell’evento che costituisce la scaturigine dell’obbligazione tributaria e dell’imponibilità a fini iva, cui si ricollegano l’operatività dalla disciplina del tributo ed i relativi effetti; b) quello dell’attitudine attuale dell’imposta ad essere pretesa in riscossione dall’Erario; c) quello, infine, del “pagamento”.

Le citate direttive puntualizzano inoltre esplicitamente, che il fatto generatore dell’imposta s’identifica con l’effettuazione della cessione di beni ovvero con quella della prestazione di servizi, il cui verificarsi determina, di regola, anche l’esigibilità dell’imposta (cfr. il testo dei rispettivi artt. 1, comma 2, e 63: “Il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi”; non dissimilmente si esprime, in tema d’insorgenza dell’ imponibilità a fini iva con riguardo alle prestazioni di servizi, l’art. 6 n. 4 della seconda direttiva iva 67/228/Cee).

Come rilevato anche da Corte giust., 19 dicembre 2012, in causa C-549/11 (proprio con riguardo a prestazione di servizi), l’ordinamento comunitario contempla, dunque, il fatto generatore dell’imposta, quale nozione autonoma e distinta, sul piano concettuale, rispetto a quella dì esigibilità dell’imposta medesima ed inequivocabilmente lo ancora al dato del materiale espletamento dell’operazione (cessione del bene o prestazione del servizio); non a quello del pagamento del corrispettivo. E, in sistematica coerenza, l’art. 90 dir. 2006/112/Ce, prevede che la mancata riscossione del corrispettivo in conseguenza dell’inadempimento o della risoluzione del contratto, verificatisi successivamente all’effettuazione dell’operazione, non elimina l’obbligazione tributaria (ma incide esclusivamente sulla determinazione della base imponibile).

3.3.2 – Per altro verso, l’ordinamento comunitario conferisce agli Stati membri la facoltà di derogare alla disciplina comunitaria con riguardo alle condizioni di esigibilità dell’iva, ma non anche in merito all’identificazione del fatto generatore dell’imposta.

Gli artt. 10, § 2, dir. 77/388/Cee e 65 dir. 2006/112/Ce, pur riconoscendo agli Stati margini di discrezionalità nella definizione delle condizioni di esigibilità dell’iva, non contemplano infatti, al riguardo, alcun riferimento al fatto generatore dell’imposta. Ciò, mentre, in merito alla previsione di cui l’art. 6 della seconda direttiva 67/228Cee, Corte giust. 20 maggio 1975, in causa C-11/75, ha, tra l’altro, espressamente statuito che, in ogni caso, la disposizione non può in alcuno modo interpretata nel senso di ravvisarvi la possibilità per gli Stati membri d’identificare il momento dell’effettuazione delle prestazioni di servizi con quello del rilascio della fattura o dell’incasso del corrispettivo, qualora tali eventi siano successivi al compimento del servizio; così riconoscendo, dunque, agli Stati membri solo la facoltà di anticipare (non anche quella di posticipare) la rilevanza fiscale di dette operazioni rispetto alla regola generale della coincidenza di tale rilevanza con l’espletamento del servizio.

3.4 – Le indicazioni emergenti dalla disciplina comunitaria, proiettandosi ineludibilmente sulle norme nazionali che ne realizzano la trasposizione, ostano a che l’art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972 sia letto, nel senso che, per le prestazioni di servizio, il presupposto impositivo e, con esso, l’insorgenza dell’imponibilità a fini iva, si verificano, non con l’esecuzione della prestazione, bensì, successivamente, con il pagamento del corrispettivo correlativamente pattuito.

In tal senso, del resto, Corte giust. 26 ottobre 1995, in causa C-144/94 – affermando che l’art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972 (nell’attribuire rilevanza a fini impositivi, quanto alle prestazioni di servizi, al dato del pagamento del relativo corrispettivo) non contrasta con l’art. 10 dir. 77/388Cee, “in quanto questa disposizione, pur identificando il fatto generatore dell’imposta con l’esecuzione della prestazione, consente tuttavia agli Stati membri di stabilire che l’imposta diventi esigibile, per tutte le prestazioni, solo con l’incasso del corrispettivo” – rileva con chiarezza che la norma nazionale deve essere necessariamente intesa nel senso che la ficta identificazione con il pagamento del corrispettivo (“le prestazioni di servizio si considerano effettuate …”) investe il compimento della prestazione con esclusivo riferimento alla sua rilevanza ai fini della mera esigibilità dell’imposta; giacché, ove ne risultasse coinvolta anche la sua rilevanza ai fini dell’imponibilità e dell’insorgenza dell’obbligazione tributaria, la disposizione risulterebbe (per quanto detto in precedenza) incompatibile con il diritto comunitario.

3.5.1 – Ove si tenga conto della concettuale scissione della nozione di imponibilità a fini iva, riferita alla genesi dell’obbligazione tributaria, rispetto a quella di esigibilità dell’imposta, intesa quale attualità della pretesa dell’Erario alla relativa riscossione, la stessa lettera dell’art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972 e il complessivo dato normativo nazionale non risultano insuscettibili di lettura coerente con i canoni (comunque destinati a prevalere in ragione della primazia del diritto comunitario in materia di tributi armonizzati) sanciti della disciplina sovranazionale.

3.5.2 – Posto che il pagamento del corrispettivo non è essenziale al riscontro del carattere oneroso che l’operazione deve assumere per costituire presupposto dell’imposta (dipendendo detto carattere dagli accordi delle parti e non dall’esecuzione del rapporto), occorre, invero, considerare che – dal momento che il testo dell’art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972 non offre alcun elemento contrario ad una lettura nel senso della sua rilevanza ai soli fini dell’esigibilità e che il d.p.r. 633/1972 non contempla alcuna specifica indicazione circa il momento d’insorgenza dell’obbligazione tributaria ed il dato di temporale rilevanza del presupposto del tributo (così lasciando, sul punto, intendere il rimando alla normativa sovranazionale) – tutt’altro che implausibile si rivela ritenere che l’art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972, nella contemplata assimilazione al pagamento, si riferisca alla sola esigibilità dell’imposta, dando per scontata la sua concettuale distinzione ed autonomia dal relativo fatto generatore.

3.5.3 – Preciso indice normativo del fatto che anche l’ordinamento nazionale non disconosce, ma presuppone, la distinzione concettuale tra fatto generatore ed esigibilità dell’imposta (mantenendo il primo rigorosamente ancorato al dato temporale della concreta esecuzione dell’operazione imponibile e riservando al pagamento il solo ruolo di condizione di esigibilità dell’imposta) si rinviene, peraltro, nella circostanza che, in assonanza con l’art. 90 dir. 2006/112/CE (in precedenza richiamato), l’art. 26 d.p.r. 633/1972 prevede che la mancata riscossione del corrispettivo, qualora il momento impositivo si sia già verificato, non comporta il venir meno dell’obbligazione tributaria, ma incide sulla determinazione dell’imposta o della base imponibile.

3.5.4 – Nel senso indicato depone, inoltre, il rilievo che – diversamente dalle condizioni di esigibilità dell’imposta, che possono anche variare in considerazione di specifiche esigenze funzionali l’imponibilità, quale espressione del fatto generatore dell’imposta ed indice di capacità contributiva (cui si ricollegano gli effetti previsti dalla disciplina del tributo ed in rapporto alla quale s’individuano ambito territoriale di relativo riferimento nonché disciplina ed aliquota in concreto applicabile) , appare dover essere necessariamente riferito, nella prospettiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost. e per l’esigenza di non trattare differentemente situazioni uguali, a dato oggettivo omogeneo ed insuscettibile di variazioni determinate da scelte casuali e soggettive.

Situazione che non si verificherebbe, ove si ritenesse che, nel considerare l’effettuazione della prestazione coincidente con il pagamento, l’art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972 intendesse riferirsi a tale evento anche con riguardo al fatto generatore dell’imposta, giacché, in tal caso, l’imponibilità a fini iva sarebbe, irrazionalmente, destinata a mutare (cfr. la disciplina complessiva della citata disposizione), non solo in rapporto alla tipologia dell’operazione imponibile, ma anche all’interno di ciascuna di esse nonché in funzione dell’opzione dell’operatore (che eventualmente anticipi il momento impositivo con l’emissione della fattura).

4.1 – Alla luce di quanto si è andato sin qui discorrendo, il fatto generatore del tributo iva e, dunque, l’insorgenza della correlativa imponibilità vanno identificati – non solo sul piano dei rapporti privatistici (in tal senso, già Cass. 8222/11, 15690/08), ma anche sul piano eminentemente tributario con la materiale esecuzione della prestazione, giacché, in doverosa aderenza alla disciplina europea, la previsione di cui all’art. 6, comma 3, d.p.r. 633/1972 va intesa nel senso che, con il conseguimento del compenso, coincide, non l’evento generatore del tributo, bensì, per esigenze di semplificazione funzionali alla riscossione, solo la sua condizione di esigibilità ed estremo limite temporale per l’adempimento dell’obbligo di fatturazione.

Ciò comporta, quale indefettibile corollario, che i compensi di prestazioni da attività imprenditoriale o professionale, conseguiti dopo la cessazione dell’attività medesima, devono ritenersi assoggettati ad iva, risultandone lo “statuto” impositivo definito dalla contestuale ricorrenza, all’atto del manifestarsi del fatto generatore dell’imposta (e suo presupposto oggettivo) anche del relativo presupposto soggettivo.

4.2.1 – La soluzione di ritenere assoggettato ad iva il compenso di prestazione professionale percepito dopo la cessazione dell’esercizio dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata eseguita, è, per altro verso, imposta (ancor prima che dall’opportunità di prevenire rischi di strumentalizzazioni elusive, peraltro in danno di risorsa dell’Unione) dalla necessità di assicurare il compiuto rispetto del principio della neutralità fiscale dell’iva, in forza del quale il tributo è esclusivamente destinato a gravare sul consumatore finale e non può risolversi né in svantaggio né in vantaggio per gli operatori economici che intervengano nei passaggi intermedi del ciclo produttivo/distributivo.

Solo ritenendo il compenso in rassegna assoggettato ad iva si risponde, infatti, all’esigenza, coessenziale alla natura del tributo, di impedire la sottrazione al prelievo sul consumo del valore aggiunto relativo ad operazione di prestazione di servizi, che, inquadrata in regime fiscale iva, ha partecipato delle detrazioni d’imposta sugli acquisti “a monte”.

Sul fronte della spese, risulta, del resto, già affermato, che il principio in rassegna esige la rilevanza fiscale a fini di detrazione, sia, da un lato, delle spese comprovatamente propedeutiche ad attività imprenditoriale, che, poi, non decolla (cfr. Corte giust. 29 febbraio 1996, in C-110/94, Cass. 17514/02), sia, dall’altro, di quelle funzionali a siffatta attività, ma successive alla sua cessazione (cfr. Corte giust. 3 marzo 2005, in C-32/03).

4.2.2 – Nell’indicata prospettiva – e alla luce della previsione dell’art. 35 bis, comma 1, d.p.r. 633/1972 (che, con riguardo all’iva, riconosce ruolo agli eredi del contribuente) nonché dell’elaborazione giurisprudenziale, in tema di imposte dirette, sulla natura dei compensi del professionista conseguiti dagli eredi dopo la sua morte (cfr. Cass. 4785/09) – non emergono, peraltro, ragioni logico-giuridiche ostative all’applicazione della soluzione indicata relativamente ai corrispettivi di prestazioni eseguite, nell’esercizio dell’attività economica di soggetto deceduto o di società estinta, incassati dagli eredi o dai soci.

4.2.3 – Attesi alcuni spunti dell’ordinanza di rimessione, non è, d’altro canto, superfluo osservare che, nell’ottica considerata, la soluzione prescelta si pone in contraddizione solo del tutto apparente con la giurisprudenza di questa Corte (sent. 6198/96 e 8145/96), secondo cui la cessione di un bene, posta in essere da un imprenditore successivamente alla cessazione dell’attività d’impresa, esula dall’imposizione iva ed è soggetta all’ordinaria tassazione proporzionale di registro di cui all’art. 38 d.p.r. 634/72, anche se si tratti di bene prodotto nell’ambito della pregressa attività o comunque da essa derivato.

Deve, invero, considerarsi che – differentemente da quanto avviene per le prestazioni di servizi – in relazione alle cessioni di beni di cui alle decisioni in rassegna, la cessazione dell’attività determina il contestuale compiuto esaurimento del ciclo dell’imposizione iva, in forza dell’obbligatoria applicazione della regola del cd. “autoconsumo”, estesa dalla previsione dell’art. 2, comma 2 n. 5, d.p.r. 633/1972 (in combinato con quella di cui al successivo l’art. 35, comma 4) all’ipotesi di cessazione dell’attività; sicché, in merito alle cessioni successive, resta spazio solo per l’applicazione di altre forme di fiscalità.

5. – Su diverso piano, la conclusione di reputare assoggettato ad iva il corrispettivo di attività professionale conseguito dopo la cessazione dell’attività medesima, ancorché debitamente formalizzata, trova pieno riscontro nel principio generale di effettività, in forza del quale l’applicazione della disciplina iva, dipendendo unicamente dalla sussistenza dei presupposti di fatto del tributo (cfr. Corte giust. 6.9.2012, in C-324/2011, 21.10.2010, in C-385/2009; Cass. 4234/04), non può essere condizionata (a svantaggio come a vantaggio del contribuente) da fattori puramente formali; cosicché, in assenza di compiuto sostanziale esaurimento di tutte le operazioni fiscalmente rilevanti, non possono assumere valore determinante, ai fini dell’esclusione dall’imposizione, il dato dell’intervenuta dichiarazione di cessazione dell’attività ex art. 35 d.p.r. 633/1972 e quello della dismissione della partita iva, attesa il carattere meramente formale (anzi: “anagrafico”) della prima evenienza (cfr.; Corte giust. 22.12.2010, in C-438/09; Cass. 5851/12, 22774/06, 4234/04) e puramente strumentale della seconda.

IV) Alla stregua delle considerazioni che precedono – mentre va dichiarata l’inammissibilità del ricorso – ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., va affermato il seguente principio di diritto: “il compenso di prestazione professionale è imponibile a fini iva, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione”.

Stante l’assenza d’attività difensiva dell’intimato, non vi è luogo a provvedere sulle spese.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

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