Corte di Cassazione

1 Maggio 2019

Cass. Pen., Sez. V, Sentenza 29 aprile 2014, n. 17939

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 aprile 2014, n. 17939

Reati societari – Illecita influenza sull’assemblea dei soci – Donazione delle azioni ai parenti – Punibilità – Sussiste

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Milano, il 04/07/2011, confermava la sentenza di condanna emessa dal G.u.p. del Tribunale della stessa città in data 27/11/2007 nei confronti di G.C. A.R., D.C. e S.C. imputati del delitto di cui agli artt. 110 cod. pen. e 2636 cod. civ.

1. L’addebito riguardava, in particolare, la presunta realizzazione di atti simulati e fraudolenti al fine di determinare una indebita influenza sull’assemblea dei soci della C.Z. s.p.a., quotata in borsa: su iniziativa di alcuni azionisti di minoranza, che il 03/02/2005 avevano chiesto convocarsi l’assemblea onde deliberare un’eventuale azione di responsabilità a carico degli amministratori, detta assemblea era stata infatti fissata dal consiglio di amministrazione per il successivo 14 aprile (con provvedimento adottato il 12 marzo), ma già il 9 marzo G.C., amministratore ed azionista di controllo in quanto socio al 51,14%, aveva disposto di buona parte delle proprie quote donandole alla moglie e ad una delle figlie. In tal modo era stata aggirata l’esclusione dal voto dei soci amministratori, vale a dire dello stesso G.C. e della di lui figlia D. (che deteneva quote nella misura del 4,8%), giacché a seguito di quelle donazioni erano state ammesse a partecipare all’assemblea, come pure a votare sulla proposta di dare corso alla suddetta azione di responsabilità, sia la moglie del C. (A.R., donataria del 28,7% delle quote) che l’altra figlia D. (cui era stato ceduto il 9,8% del pacchetto). In occasione dell’assemblea medesima, presieduta dal C. e svoltasi anche in date successive al 14/04/2005, era stata respinta la richiesta di un socio di minoranza – G.P. promotore di una serie di iniziative ed autore di esposti relativi alla gestione della s.p.a. – di escludere dal voto la R. e D.C. in ragione del dedotto conflitto di interessi, osservando il presidente C. che non poteva essere l’assemblea la sede competente per stabilire la legittimità o meno di un’espressione di voto; quindi veniva rigettata anche la proposta di azione di responsabilità verso i componenti del consiglio di amministrazione (G. e D.C., oltre che lo stesso C.), con i voti decisivi della R , tramite soggetto delegato, e di D.C.

1.2 Riteneva la Corte di appello, richiamando le argomentazioni del giudice di prime cure, che attraverso le donazioni sopra descritte si fosse venuta a condizionare la formazione della maggioranza assembleare, in conseguenza di atti da considerare simulati e fraudolenti secondo l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità: si doveva infatti ritenere che avessero tale connotazione non soltanto gli atti cosi definibili in base alle corrispondenti nozioni civilistiche, bensì anche quelli che rientrassero in una “traduzione letterale del concetto più generale […] di ogni attività volta ad offrire, in sede di delibera assembleare, una falsa rappresentazione dei fatti, che si era tradotta nella alterazione delle maggioranze assembleari”. La falsa rappresentazione della realtà, stando alla ricostruzione della vicenda fatta propria dai giudici di merito, derivava soprattutto dal rilievo che, anche a seguito delle donazioni, G.C. aveva continuato ad operare come dominus della società: l’assunto trovava conferma, fra l’altro, dal contenuto di intercettazioni telefoniche nel frattempo disposte, come pure dalla circostanza che, già il 26/10/2005, le donatarie avevano alienato le quote come sopra ricevute a tale C.C. all’esito di prolungate trattative di quest’ultimo – mediante la H. s.p.a. – con il C. ed il C., iniziate ben prima delle donazioni.

Ciò, fra l’altro, rendeva evidente come anche il C. fosse partecipe del disegno volto alla costruzione di maggioranze fraudolente in seno all’assemblea, di cui egli – come detto – aveva assunto la presidenza: infatti, pure a fronte di quelle asserite donazioni il C. “mai asseriva di essersi confrontato con persone diverse da G.C. a cui peraltro doveva le sue cariche nelle varie aziende, circa la gestione e la ricerca di soluzioni finanziarie che consentissero il loro risanamento”.

Nel disattendere i motivi di gravame sviluppati dagli appellanti, la Corte territoriale segnalava di non poter ritenere attendibile la tesi difensiva secondo cui le donazioni anzidette trovavano causa in strategie già decise da tempo nella gestione delle quote azionarie all’interno del patrimonio della famiglia C. G.C. i infatti, aveva palesato già dal 2003 ipotesi di cessione di parte delle quote ai propri familiari, interessando di tale prospettiva anche gli organi di controllo, ma si era sempre trattato di indicazioni aventi contenuto differente rispetto a quello poi realizzato nel marzo 2005: fra l’altro, in quelle ipotesi, egli aveva sempre paventato una suddivisione in parti uguali delle azioni da dividere tra le due figlie, mentre poi aveva dato corso ad una cessione solo in favore di D. e non anche di D., di cui i giudici di appello sottolineavano la qualità di componente del consiglio di amministrazione, e dunque esclusa dal voto ai sensi dell’art. 2373 cod. civ., a differenza della sorella. Con la conseguenza che il non aver donato alcunché alla figlia D. rendeva palese “che l’atto di liberalità del 9 marzo 2005 era destinato solamente a consentire alle azioni già di G.C. di votare in quell’assemblea che avrebbe deciso sull’azione di responsabilità da promuovere contro G.C., D.C. e S.C.”.

La Corte territoriale richiamava quindi i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità circa la corretta accezione, in sede penale, della nozione di “atti simulati” prevista dall’art. 2636 cod. civ., da intendersi in termini non sovrapponibili a quella civilistica; precisava inoltre che nella fattispecie concreta la condotta contestata risultava senz’altro strumentale ad un profitto ingiusto. A quest’ultimo riguardo, osservava che “il promuovimento di un’azione di responsabilità comporta per chi la subisce precisi ed ingenti danni di immagine […] e danni economici (i costi per sostenere quel giudizio, l’assai probabile deprezzamento del pacchetto azionario)”; nel contempo, il carattere di ingiustizia appariva immediata conseguenza dell’essere il profitto de quo in rapporto di diretta derivazione da un atto simulato e truffaldino.

1.3 In ordine al tema delle intercettazioni, i giudici di secondo grado rilevavano che in ogni caso le conversazioni captate assumevano una rilevanza meramente aggiuntiva rispetto ad un quadro probatorio già sufficiente e ben delineato, dimostrandosi attraverso le stesse che – come peraltro già chiaro – G.C. aveva mantenuto il suo potere reale di azionista di controllo, con il C. ad agire quale suo uomo operativo di fiducia. Tanto premesso, le intercettazioni in argomento si sottraevano alle censure di inutilizzabilità sollevate dagli appellanti: secondo le difese, quelle operazioni erano state autorizzate in relazione ad un titolo di reato che le consentiva (l’associazione per delinquere, in ragione dei correlati limiti edittali di pena), ma il successivo atto di esercizio dell’azione penale recava la sola contestazione di ipotesi criminose meno gravi che, ove formulate ab initio, non avrebbero reso praticabile il ricorso a detto mezzo di ricerca della prova; tuttavia, come affermato in precedenti di legittimità richiamati dal G.u.p. ed in altra pronuncia di questa Corte intervenuta medio tempore, il parametro di riferimento per la verifica dell’utilizzabilità delle intercettazioni doveva rimanere ancorato al momento in cui le stesse erano stato disposte, non ostandovi la mancata conferma di un’ipotesi criminosa di cui si fossero ravvisati gravi indizi solo inizialmente.

2. Propongono ricorso per cassazione, che affidano a tre motivi, i difensori di S.C.

2.1 Con il primo, si lamenta violazione di legge processuale e carenza di motivazione, circa la ritenuta utilizzabilità delle intercettazioni compiute nel corso delle indagini preliminari, autorizzate in ordine ad una ipotesi di reato associativo su cui era poi intervenuto decreto di archiviazione, all’esito di conforme richiesta del Pubblico Ministero; i giudici di merito ne avevano poi assunto l’utilizzabilità a sostegno della declaratoria di penale responsabilità degli imputati quanto all’unico reato loro contestato, ai sensi dell’art. 2636 cod. civ. Al di là del dibattito giurisprudenziale sulla possibilità di ritenere che il procedimento concernente il reato su cui le intercettazioni vennero disposte sia o no il medesimo rispetto a quello relativo ai reati per la prova dei quali si intendano utilizzare le intercettazioni stesse, viene qui lamentato che la Corte di appello non avrebbe comunque trattato il motivo di gravame incentrato sull’insussistenza originaria dei gravi indizi di reato che avrebbero potuto legittimare il ricorso alle intercettazioni per il reato associativo (a sostegno della non plausibilità ab initio dell’ipotizzato sodalizio criminoso, si fa presente che il P.M. aveva a suo tempo chiesto di dare corso alla captazione delle conversazioni telefoniche dei protagonisti della vicenda con la motivazione: “pare che le plurime ipotesi di reato qui rassegnate non rappresentino episodi isolati ma sembrano il portato di una associazione per delinquere”). Secondo la difesa, anche a dare credito ai sospetti di cui all’impianto della denuncia iniziale e delle prime indagini, “poteva al più ipotizzarsi la possibile commissione di reati societari eventualmente legati dal vincolo della continuazione”.

Peraltro, i difensori del ricorrente sottolineano l’importanza dei risultati delle intercettazioni, a dispetto di quanto affermato dalla Corte territoriale circa la presunta sovrabbondanza degli elementi istruttori comunque raccolti aliunde, ai fini della prova della presunta responsabilità del C. quale concorrente del C. e dei familiari di quest’ultimo.

2.2 Con il secondo motivo, nell’interesse del C. viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 2636 cod. civ., giacché ad avviso della difesa non sarebbe possibile rinvenire nella fattispecie concreta l’elemento oggettivo del reato de quo, in particolare gli atti simulati o fraudolenti contemplati dalla norma incriminatrice. Nel ricorso si sostiene che “nel caso di specie sicuramente non è possibile ravvisare l’ipotesi della simulazione: la donazione è avvenuta per atto pubblico, donante e donatane ne hanno dato rituale comunicazione all’organo di controllo della Borsa italiana, le donatane si sono astenute dal retro-donare le azioni ricevute e ne hanno disposto successivamente in assoluta autonomia, senza riconoscere alcunché a favore del donante. Quanto poi alla possibilità di apprezzare la valenza fraudolenta delle donazioni, si è sottolineato il fatto che nel caso di specie non è stato perpetrato alcun raggiro, dal momento che tutti gli interessati erano stati posti a conoscenza del passaggio di proprietà delle azioni. E se si fosse ritenuta sussistente la ricorrenza di un’ipotesi di conflitto di interessi, gli azionisti dissidenti avrebbero ben potuto impugnare la delibera assembleare asseritamente viziata”.

Per converso, si censurano gli argomenti adottati dalla Corte territoriale, nella parte in cui viene conferito rilievo alla circostanza che GC avrebbe mantenuto un ruolo di dominus di fatto della società a dispetto della cessione di buona parte del pacchetto azionario, e viene proposta una diversa e più approfondita lettura della sentenza della Sezione Prima di questa Corte (n. 17854 del 03/03/2009, ric. Di Pietro), invocata nella motivazione dei giudici di merito. Secondo la difesa, appare decisivo il rilievo che in sede di legittimità si sia comunque affermato che il delitto ex art. 2636 cod. civ. rientra nella categoria dei reati a forma vincolata, con il conseguente rigore nella descrizione della condotta tipica, per cui si sarebbe imposta in ogni caso la prova che gli atti di donazione di quote dal C. alla moglie e ad una delle figlie avessero mostrato una realtà giuridica diversa da quella effettiva (ma così non era, atteso che le donatane erano effettivamente entrate nella disponibilità delle azioni), ovvero che la volontà degli altri partecipanti all’assemblea fosse stata espressa a seguito di un inganno indotto dalle donazioni medesime (ipotesi altrettanto da escludere, perché tutti si resero conto del significato di quegli atti).

La tesi del ricorrente, in definitiva, è che “la riconosciuta autonomia dei requisiti della simulazione o della fraudolenza ai fini della consumazione del delitto di illecita influenza sull’assemblea non può condurre l’interprete a negare ogni consistenza ai contenuti che con tali espressioni il legislatore ha inteso richiamare: deve pur sempre trattarsi di attività idonee ad offrire una falsa rappresentazione della realtà e ad ingenerare l’inganno, ponendosi quale fattore di turbativa del regolare processo di formazione della volontà dell’assemblea […]. Né può dirsi affrontata detta problematica quando la sentenza della Corte di appello accenna alla circostanza che la donazione del 9 marzo 2005 aveva creato una situazione non rispondente al vero, “e quindi simulata e fraudolenta”: invero, così i giudici di appello intendono solo segnalare che, nonostante la cessione delle azioni, ” G.C. aveva mantenuto., il ruolo di dominus di fatto della società”. Ma non è affatto impedito il mantenimento di tale posizione dalla perdita del ruolo di azionista di maggioranza o di riferimento, come l’esperienza facilmente insegna. Quindi, appare privo di ogni concreto rilievo ai fini dell’art. 2636 cod. civ. un simile dato, quand’anche confermato dalla realtà probatoria processuale”.

2.3 Con il terzo motivo si deducono infine carenze motivazionali della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità concorsuale del C. nei reati commessi dal C. in ogni caso, infatti, non sarebbe stato neppure descritto in rubrica il contributo che egli avrebbe arrecato alla fattispecie contestata. Pur volendo ipotizzare, come di fatto si legge nella pronuncia oggetto di ricorso, che egli avrebbe svolto un ruolo causalmente significativo nel gestire le assemblee del 14 e del 20 aprile 2005, assuntane la presidenza, i difensori del ricorrente segnalano che:

– quand’anche il C fosse stato a conoscenza del proposito del C di donare le azioni alla moglie ed alla figlia per paralizzare l’azione di responsabilità, ciò non sarebbe sufficiente ad ipotizzare un suo concorso nella concreta esecuzione di quel piano, né che avesse contribuito a idearlo;

– il C. aveva respinto la richiesta del P. sopra ricordata, applicando correttamente le previsioni normative, atteso che la lettera dell’art.. 2373 cod. civ., nella formulazione vigente all’epoca del fatto, consentiva comunque ad un socio di “esprimere in assemblea la propria volontà in relazione ad una determinata proposta di deliberazione, approvandola o disapprovandola o, eventualmente, astenendosi dal voto senza alcun obbligo di informare i consoci della propria situazione”. Perciò, non poteva essere il presidente dell’assemblea ad inibire una siffatta dichiarazione di voto, potere consentitogli solo nelle ipotesi di cui al secondo comma del citato art. 2373, dettato per la disciplina di situazioni affatto diverse.

3. Propone altresì distinti ricorsi, di contenuto in larga parte sovrapponibile, il comune difensore di G. C. A.R. e D.C. Avv. Cesare Cicorella.

3.1 Nell’interesse di G.C., in via di ricostruzione generale, l’Avv. Cicorella sviluppa una premessa nella quale sottolinea che l’imputato effettivamente donò ai familiari le proprie azioni nella società, senza che in ciò possa ravvisarsi alcuna simulazione ed a prescindere da quali finalità egli intese così perseguire: la donazione venne perfezionata per atto pubblico, con tanto di comunicazione alla Consob in data anteriore alle assemblee, e nessuno ritenne di adottare iniziative di sorta, né vennero comunque impugnate le delibere assembleati od avanzati rilievi da parte del collegio sindacale, della società di revisione o del commissario giudiziale (la società era stata ammessa alla procedura di amministrazione controllata); in seguito, le donatane alienarono le azioni ad altri a titolo oneroso e realizzando un vantaggio patrimoniale, senza che mai il donante fosse ritornato a disporne. Il difensore ricorda altresì che già due anni prima il C. aveva chiesto delucidazioni presso la Consob su come donare pacchetti azionari, volendo ridistribuire il proprio patrimonio all’interno della famiglia (e non assumendo alcun rilievo la circostanza che la ripartizione allora paventata risultava diversa da quella poi praticata in effetti): ciò a riprova dell’assenza di prova della simulazione dell’atto, ipotesi da intendersi, al contrario, del tutto smentita dalle risultanze processuali.

Nel ricorso si analizzano quindi i precedenti giurisprudenziali invocati nelle decisioni di merito, ai cui principi le sentenze del G.u.p. e della Corte territoriale si sarebbero ispirati, per segnalare l’assoluta eterogeneità di quelle fattispecie concrete rispetto alla vicenda oggi sub judice. Inoltre, si evidenzia che già nella pronuncia di primo grado risulta chiarito come a carico del C. non fosse stata formulata da parte del P.M. (malgrado i numerosi esposti del P. e la complessità delle indagini svolte) alcuna contestazione ulteriore rispetto a quella ex art. 2636 cod. civ.: ergo, non avendo gli inquirenti ravvisato falsità nelle scritture contabili o condotte distrattive, rimaneva impossibile comprendere da quale prospettiva di azione di responsabilità il C. avrebbe inteso sfuggire attraverso le presunte frodi o simulazioni a lui addebitate, tanto più che – se non fatta propria dall’assemblea – l’iniziativa di promuovere un’azione siffatta ben avrebbe potuto essere assunta da singoli soci. Tale osservazione logica dovrebbe comportare, nella ricostruzione difensiva, la necessaria presa d’atto dell’impossibilità di provare che il Q. sia mai stato animato dal dolo specifico di perseguire un profitto ingiusto: sul punto, invece, la Corte milanese si sarebbe limitata ad affermazioni apodittiche e non dimostrate, come l’ipotetico timore dell’imputato di affrontare il giudizio, ovvero il danno all’immagine che ne sarebbe derivato.

Deducendo quindi inosservanza ed erronea applicazione di legge sostanziale e processuale, il ricorrente lamenta che – a fronte degli elementi evidenziati – i giudici di merito non sarebbero riusciti a fornire alcun dato probatorio indicativo della affermata simulazione: ad esempio, l’esistenza di un atto scritto di retrocessione delle azioni al Q., l’avere le donatane (nel disporre delle loro quote) agito dietro le direttive del donante, o versato a lui il corrispettivo della successiva vendita delle azioni. In definitiva, la Corte territoriale parrebbe propugnare la tesi di una presunzione di illiceità della donazione, insistendo nel teorizzare presunte finalità avute di mira dall’imputato, quando invece – preso atto dell’effettività della donazione – le ragioni sottese avrebbero dovuto considerarsi del tutto irrilevanti.

Da ultimo, secondo la difesa deve ritenersi assolutamente non dimostrato che il C. avrebbe “mantenuto il ruolo di dominus di fatto della società, nonostante la donazione”; aspetto, questo, che avrebbe dovuto peraltro intendersi non conferente, capitando sovente che un socio divenuto di minoranza mantenga, “per l’autorevolezza della sua personalità, un ruolo che prescinde dall’entità della partecipazione”. Né avrebbe potuto considerarsi significativo, in chiave accusatoria, il rapporto con il C. – parimenti rimanendo non provato che questi fosse l’uomo più vicino a chi amministrava la società, ed essendo stato il suo comportamento, nel presiedere le assemblee, certamente ineccepibile nel consentire a tutti i soggetti legittimati l’esercizio del diritto di voto.

Conclusivamente, l’Avv. C. rappresenta di non voler “proporre una lettura differente degli elementi posti a fondamento della decisione, bensì sostenere che la Corte territoriale ha solo potuto elaborare una congettura, aprioristicamente elevata ad interpretazione del fatto”.

3.2 Quanto alle posizioni di A.R. e D.C., nei relativi ricorsi si dà atto che vengono espressamente fatte proprie le ragioni di doglianza spiegate nell’interesse di G.C., aggiungendosi che:

– non può intendersi sufficiente, per fondare un’ipotesi di responsabilità penale a titolo di concorso ex art. 110 cod. pen., il mero rilievo che le due donne accettarono la donazione, atto che le arricchiva in termini milionari, tali da escludere che il loro proposito fosse quello di scongiurare un’azione di responsabilità;

– oltre a non esservi prova della simulazione dell’atto di donazione, non potrebbe in ogni caso dimostrarsi che la moglie (di cui si sottolinea più volte la totale estraneità all’organo amministrativo della s.p.a.) o la figlia del C. ne fossero consapevoli, visto che non vi è traccia di elementi sulla presunta conoscenza da parte loro delle iniziative del congiunto, o sul fatto che le coimputate ne avessero condiviso i timori e le relative soluzioni fraudolente da lui pianificate.

Considerato in diritto

1. In via preliminare, è necessario prendere atto dell’intervenuta prescrizione del delitto contestato in rubrica, da intendersi maturata in data 09/09/2012 (non risultando in atti cause di sospensione dei relativi termini); nei riguardi del C. tuttavia, sussistono gli estremi per un proscioglimento ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., in accoglimento delle doglianze difensive di cui al terzo motivo del ricorso presentato nell’interesse dell’imputato.

Quanto a G.C., A.R. e D.C., i cui ricorsi non appaiono fondati senza tuttavia presentare profili di inammissibilità, dovrà invece dichiararsi l’estinzione del reato, con esame dei motivi di gravame ai soli effetti delle disposizioni civili, ex art. 578 cod. proc. pen.

2. La questione processuale afferente la dedotta intercettazioni disposte nel corso delle indagini preliminari, causa di estinzione del reato, appare superata.

Deve peraltro ricordarsi che, per costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, “i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per un reato rientrante tra quelli indicati nell’art. 266 cod. proc. pen. sono utilizzabili anche relativamente ai restanti reati per i quali si procede nel medesimo procedimento, pur se per essi le intercettazioni non siano consentite” (Cass., Sez. IlI, n. 39761 del 22/09/2010, S., Rv 248557; v. anche Cass., Sez. VI, n. 22276 del 05/04/2012, Maggioni, e n. 49745 del 04/10/2012, Sarra Fiore), e ciò indipendentemente dal successivo esercizio dell’azione penale anche in relazione al primo reato. A fortiori alla luce della rilevata causa estintiva, non sarebbe comunque consentita in questa sede una rivalutazione del problema della sussistenza originaria di gravi indizi di reato con riferimento all’ipotesi criminosa ex art. 416 cod. pen., inizialmente formulata.

3. Con riferimento alle censure mosse dai ricorrenti in punto di sussistenza dell’elemento materiale del reato ex art. 2636 cod. civ., deve innanzi tutto rilevarsi che la condotta tipizzata dalla norma incriminatrice richiede – rispetto alla omologa previsione di cui al previgente art. 2630, comma primo, n. 3, cod. civ. – un elemento di frode, risultando necessari comportamenti artificiosi rappresentati da una componente simulatoria idonea a realizzare un inganno, si da portare alla necessaria conclusione che il precetto sanzionato appare descritto quale reato a forma vincolata. Per la consumazione del delitto medesimo, essendo la norma posta a tutela dell’interesse al corretto funzionamento dell’organo assembleare, è inoltre necessario che la condotta abbia effettivamente inciso sulla formazione della maggioranza (l’espressione “determina la maggioranza” rende evidente che la fattispecie criminosa è costruita come reato di evento, a differenza di quella contemplata dal ricordato art. 2630).

Appare pacifica, nel caso di specie, la sussistenza del secondo requisito, visto che la donazione delle quote ad A.R. (nella misura del 28,7%) ed a D.C. (Per 9,8%) determinò una maggioranza falsata, essendo quel complessivo 38,5% corrispondente a larga parte della partecipazione di chi, qualora avesse conservato la titolarità delle azioni de quibus, avrebbe dovuto astenersi dal voto.

Circa la nozione di “atti simulati o fraudolenti”, sia la sentenza impugnata che I ricorsi presentati nell’interesse degli imputati invocano la pronuncia della Sezione Prima di questa Corte, n. 17854 del 03/03/2009 (ric. D.) offrendone una opposta lettura.

In quella occasione, si era osservato che “nell’analisi ricostruttiva della struttura della fattispecie ex art. 2636 cod. civ. occorre tenere presente la segnalata relazione di continuità normativa esistente con la figura di reato delineata dal previgente art. 2630 cod. civ., comma primo, n. 3), a norma del quale il reato poteva essere commesso con tre distinte modalità di condotta, vale a dire o valendosi di azioni o di quote non collocate, o facendo esercitare sotto altro modo il diritto di voto spettante alle azioni o quote intestate agli amministratori o, infine, utilizzando altri mezzi illeciti. Le diverse modalità di esternazione della condotta sono state sostituite nell’art. 2636 cod. civ. dal compimento di atti simulati o fraudolenti al dichiarato fine di superare le interpretazioni divergenti affiorate nei vigore della precedente normativa, anche se il testo dell’innovazione legislativa non è riuscito a dissolvere tutte le ambiguità ermeneutiche e se una parte della dottrina ha considerato la nuova formulazione – per la sua elasticità – non pienamente rispondente al principio di legalità della legge penale a causa di un deficit di determinatezza e di tassatività. Tra i commentatori della legislazione di riforma del diritto societario ha vasto seguito l’opinione secondo cui le nozioni di simulazione e di frode, che figurano nell’art. 2636 cod. civ., non coincidono con le definizioni normative proprie del diritto civile, dovendo essere interpretate in modo autonomo per designare qualsiasi condotta che, producendo l’effetto della immutatici veri, risulti idonea ad offrire una falsa rappresentazione della realtà e ad ingenerare l’inganno, ponendosi quale fattore di turbativa del regolare processo di formazione della volontà dell’assemblea”.

Muovendo dai presupposti accennati, e mostrando di aderire all’interpretazione appena riportata, la sentenza D. aveva affermato che “non è ipotizzabile illecita influenza sull’assemblea né può parlarsi di atti simulati o fraudolenti al cospetto di attività negoziali che, nell’ambito dell’autonomia riconosciuta ai privati dall’ordinamento, consentono di perseguire interessi meritevoli di tutela senza infrangere le prescrizioni poste dalla legge o dallo statuto per regolare la vita della società”; nel contempo, però, “la nozione di “atti simulati” contenuta nell’art. 2636 cod. civ. non deve essere intesa in senso civilistico, ma deve essere inquadrata in una tipologia di comportamenti più ampia, in cui sono compresi anche gli “atti fraudolenti”, e […] il reato non può ritenersi escluso per il solo motivo che nel caso di specie manca una simulazione vera e propria, nei termini regolati dal codice civile. […] Per integrare la fattispecie criminosa ex art. 2636 cod. civ. può assumere rilevanza – in presenza degli ulteriori elementi costitutivi – anche una interposizione reale, e non fittizia, come pure un eventuale pactum fiduciae, dovendo esaminarsi le condotte in una prospettiva unitaria e globale al fine di verificare se sia stata realizzata una situazione fittizia o fraudolenta che, influendo sulla volontà dell’assemblea, ha reso possibile il conseguimento di risultati non vietati dalla legge e non consentiti dallo statuto della società”.

Il collegio ritiene di condividere pienamente i principi ora richiamati, del resto successivamente ribaditi da altra pronuncia di questa stessa Sezione (Cass., Sez. V, n. 555 del 14/10/2011, Riggio). Il discrimine fra il lecito e l’illecito non può che individuarsi nella valutazione della ragione obiettiva dell’atto: un conto è la legittima esplicazione dell’autonomia negoziale privata ai sensi dell’art. 1322 cod. civ., ben altra cosa è trovarsi dinanzi – come si legge ancora nella sentenza D. – ad operazioni che “abbiano avuto l’effetto di creare una situazione artificiosa o fraudolenta funzionalmente strumentale al conseguimento di risultati che, costituendo violazione di previsioni legali o statutarie, siano connotati dal crisma della illiceità e, di riflesso, si presentino come il frutto di indebite interferenze sulla regolare formazione delle deliberazioni assemblea”.

In questa prospettiva, pertanto, la lettura di un atto di donazione ben può e deve – contrariamente agli assunti della difesa del C. e dei suoi familiari – estendersi alla verifica della finalità perseguita, anche a prescindere dal significato strettamente economico della disposizione patrimoniale. E non è corretto sostenere che l’ambito di quella verifica – come argomentano i difensori del C. – dovrebbe pur sempre limitarsi a valutare se attraverso l’atto de quo sia stata prospettata una realtà giuridica diversa da quella effettiva: una lettura j in tal senso del dato normativo sarebbe giustificata qualora il legislatore si fosse limitato a richiedere la necessità di atti “simulati”, senza introdurre la possibilità I che assumano rilievo – in via alternativa e non necessariamente cumulativa – ‘ anche atti “fraudolenti”. A mero titolo di esempio, per riprendere una casistica formulata in sede di commenti dottrinari, non vi è dubbio che convocare appositamente un’assemblea in tempi o luoghi tali da rendere oltremodo difficoltosa o addirittura impossibile la concreta partecipazione di tutti i soci ben potrebbe intendersi una condotta rilevante ai fini della ravvisabilità del reato di cui all’art. 2636 cod. civ.: ma è parimenti innegabile che, in quel caso, la realtà giuridica documentata dall’atto di convocazione dell’assemblea sarebbe conforme al vero.

Ciò posto, la motivazione della sentenza impugnata dà adeguatamente contezza degli esiti della verifica di cui si discute, anche alla luce degli accadimenti successivi alla donazione delle quote: assodato che gli equilibri della maggioranza assembleare, nell’aprile 2005, si erano venuti a modificare in termini decisivi, con i voti della R. (attraverso persona delegata) e di D.C. contrari all’esperimento di un’azione di responsabilità verso gli organi amministrativi, i giudici di merito evidenziano che dopo quelle date le azioni donate erano sostanzialmente rimaste nella disponibilità di G.C. Decisiva, a tacer d’altro, la circostanza che la stessa alienazione delle quote ad altro soggetto, cinque mesi più tardi, fu il risultato di un accordo preliminare che era stato appunto G.C. a concludere – e sottoscrivere – con il legale rappresentante della società avente causa, assumendo nell’occasione impegni non soltanto gravanti su di lui ma anche sui “suoi familiari”: perdendo così di significato concreto l’accertamento di quale destinazione ebbe il corrispettivo delle alienazioni in parola, che ben avrebbe potuto il C. lasciare nella disponibilità dei suoi congiunti (a quel punto, ma solo allora, in una eventuale prospettiva di suddivisione del patrimonio).

4. Già sul piano dell’elemento materiale, tuttavia, si impone una netta diversificazione del ruolo assunto dal C. rispetto a quello dei coimputati.

Che la moglie e la figlia del C. abbiano concorso nel reato commesso da quest’ultimo, risulta evidente: basta, a riguardo, considerare che le due ricorrenti non solo accettarono la donazione, ma si disposero immediatamente ad esprimere il loro voto in assemblea per paralizzare l’ipotesi di una azione di responsabilità, salvo poi – come le vicende della successiva alienazione delle quote dimostrano – disinteressarsi di quella partecipazione azionaria. Né può assumere rilevanza la presa d’atto che la delibera in questione non venne impugnata, o che all’esito di successivi accertamenti non sarebbero emersi i profili di responsabilità paventati da soci di minoranza a carico di G.C. o degli altri amministratori: la volontà assembleare ne era stata comunque viziata, ed era stato sicuramente realizzato l’obiettivo di scongiurare un’azione comunque pregiudizievole ex se.

Quanto al C. Per la sua partecipazione in termini di concorso materiale o morale risulta decisamente sfumata, tanto da doversi ritenere che gli elementi a suo carico siano insufficienti per un’affermazione di penale responsabilità ai sensi dell’art. 110 cod. pen.

Il fatto che egli abbia a sua volta beneficiato di quella trama truffaldina, in quanto amministratore, non può rilevare ai fini della prova certa di una sua istigazione o determinazione su altri (analoga posizione, in concreto, avrebbe avuto l’altra figlia del C.); né risulta decisiva la sua condotta quale presidente delle assemblee in cui intervennero le dichiarazioni di voto.

Ai sensi del primo comma dell’art. 2373 cod. civ., nel testo novellato e già in vigore all’epoca dei fatti, “la deliberazione approvata con il voto determinante di soci che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quella della società è impugnabile a norma dell’art. 2377”, previsione affatto diversa da quanto stabiliva il testo previgente, fino al 31/12/2003 (“il diritto di voto non può essere esercitato dal socio nelle deliberazioni in cui egli ha, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società”). Ergo, e qui si rinviene la ragione stessa del meccanismo fraudolento ordito dal C., il comma 2, sostanzialmente rimasto identico, continuava a prescrivere per gli amministratori il divieto di votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità: ma se G. e D.C. soci ed al contempo amministratori, non avrebbero potuto votare, D.C. e A.R. avevano sicuramente il diritto di farlo.

Il presidente C., in base all’art. 2371 cod. civ., era chiamato fra l’altro ad accertare l’identità e la legittimazione dei presenti, ma non avrebbe potuto precludere l’esercizio del diritto di voto a soggetti che, per quanto detto, dovevano intendersi legittimati. Il fatto in sé dell’avere egli assunto la presidenza dell’assemblea rimane parimenti irrilevante, considerato che ciò accadde su sollecitazione del presidente del collegio sindacale: scelta più che normale in casi ordinari, visto che il C. era l’unico presente fra i componenti del consiglio di amministrazione, forse discutibile in quella circostanza visto che si trattava proprio di decidere su ipotizzate azioni di responsabilità, ma comunque non sospetta (né si ipotizza che il presidente dell’organo di controllo fosse partecipe del piano).

Il C. in definitiva, non assumeva con la veste di presidente dell’assemblea alcuna posizione di garanzia strumentale ad impedire la commissione del reato sub judice: e non fece altro, anche all’esito degli accordi fra il C. ed i successivi acquirenti delle quote, che mantenere il proprio ruolo di soggetto operativo. Continuando a relazionarsi, nei mesi successivi, con colui che continuava ad atteggiarsi come dominus della società, il C. dimostrò al più di essersi reso conto che le donazioni del marzo 2005 avevano valore soltanto sulla carta, ma non vi è prova concreta che egli acquisti tale consapevolezza prima delle assemblee da lui presiedute, ed in vista di comportamenti da assumere in quelle sedi.

Sussistono pertanto, nei riguardi del C. gli estremi per una pronuncia ex art. 129, comma 2, del codice di rito, in relazione al disposto dell’art. 530, comma 2, dello stesso codice. Soluzione che si impone pure in presenza di una causa di estinzione del reato, dovendo trovare applicazione anche in questa sede i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte sulla prevalenza del proscioglimento nel merito rispetto alla causa estintiva, pure nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova, laddove si debba procedere a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili ex art. 578 cod. proc. pen. (v. Cass., Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti).

5. Quanto infine ai motivi di ricorso avanzati nell’interesse degli ulteriori imputati in punto di elemento soggettivo, vero è che il precedente art. 2630, comma primo, n. 3) cod. civ. richiedeva il dolo generico, mentre con la nuova formulazione dell’articolo 2636 cod. civ. è stata prevista una forma di dolo specifico mediante la formula “allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”: tuttavia, si è già chiarito che rimuovere la prospettiva immediata di una azione di responsabilità costituisce certamente un profitto, ove si tenga conto che questo non deve necessariamente assumere carattere patrimoniale (v. ancora la sentenza D., più volte richiamata).

Parimenti, risulta non controvertibile il connotato di ingiustizia del profitto de quo, dato che l’ordinamento detta regole formali precise per la verifica di ipotesi di responsabilità a carico degli organi amministrativi di una società, eludendo le quali – a prescindere dalla fondatezza o meno degli addebiti che, nella sede demandata e con le forme rituali, si intendano contestare – si realizza un risultato comunque contra legem. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte evidenziato che la nozione di profitto ingiusto descrive “qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intenda conseguire e che non si collega ad un diritto, ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso” (v. Cass., Sez. II, n. 16658 del 31/03/2008, Colucci).

Come già ricordato, la R. e D.C. dimostrarono adesione a quanto pianificato dal coimputato non soltanto accettando gli atti di liberalità, ma assumendo in seguito comportamenti in linea con il proposito di G.C. di vanificare quel possibile (e verosimilmente costoso) contenzioso, mantenendo al contempo la disponibilità dell’identico pacchetto azionario: elementi, questi, più che sufficienti per affermare la riferibilità a loro della condotta contestata, anche sul piano dell’elemento psicologico.

6. Si impone pertanto il rigetto, agli effetti delle statuizioni civili, dei ricorsi di G.C., A.R. e D.C.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, quanto alla , per non aver commesso il fatto, ex art. 530 comma quanto ai ricorrenti G.C. A.R. e essere il reato estinto per intervenuta prescrizione.

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