Corte di Cassazione

20 Aprile 2019

Cass. Pen., sentenza 11-5-2017, n. 23161

Corte di Cassazione, Sezione penale, sentenza 11 maggio 2017, n. 23161

Ritenuto in fatto

1. B. M. ricorre per cassazione avverso il provvedimento in epigrafe, con cui il Tribunale di Roma, quale giudice in fase di rinvio, ha rigettato l’istanza di riesame del sequestro preventivo emesso il 12 ottobre 2015 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Velletri finalizzato alla confisca per equivalente, dei beni mobili, immobili, societari e dei saldi attivi bancari e finanziari giacenti sui rapporti finanziari riconducibili al ricorrente, nella sua qualità di liquidatore della “A. s.p.a.” in liquidazione, in relazione all’omesso versamento di ritenute per un ammontare complessivo di euro 739.085,00, fatto per il quale risulta indagato per il reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n.74.

2. La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione aveva accolto il ricorso proposto dall’indagato avverso l’ordinanza di rigetto dell’istanza di riesame con la seguente motivazione: “L’art. 36 del d.P.R. 602/1973 stabilisce che i liquidatori dei soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono, in proprio, del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. Tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti. Come rilevato dal ricorrente nell’istanza di riesame testualmente riprodotta in ricorso, con argomentazioni condivise dal Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta, la richiamata disposizione opera una puntuale delimitazione dell’ambito di responsabilità in proprio dei liquidatori, riferendosi, in primo luogo, alle imposte dovute per il periodo della liquidazione e per quelli anteriori e, in secondo luogo, precisando che detta responsabilità consegue nel caso in cui essi non provino di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. Il legislatore ha quindi tenuto in debito conto la particolare attività svolta dal liquidatore tanto sotto il profilo temporale quanto sotto quello funzionale specifico, ponendo un ulteriore limite quantitativo laddove stabilisce che la responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti. Come correttamente osservato dal Procuratore Generale, la responsabilità delineata dalla norma in esame si configura se i soggetti preposti alla liquidazione distraggano l’attivo della società al fine del pagamento delle imposte e lo destinino a scopi differenti, ma non deriva, invece, dal mero adempimento fiscale, ponendo inoltre in evidenza l’irragionevolezza di una diversa lettura della norma che porterebbe alla illogica conseguenza della imposizione al liquidatore, da un lato, dell’obbligo di osservare un ordine gerarchico nell’assolvimento delle posizioni debitorie – tra le quali rientrano anche quelle fiscali – e, dall’altro, nella previsione di responsabilità nel caso in cui l’osservanza di tale criterio di riparto abbia comportato la non volontaria omissione del versamento delle ritenute. Tali rilievi paiono al Collegio pienamente condivisibili e non possono ritenersi confinati, come afferma il Tribunale, peraltro in maniera assertiva, in un ambito prettamente civilistico, avendo, per le ragioni dianzi esposte, una diretta incidenza in ordine alla configurabilità del reato in caso di insussistenza dei presupposti limitativi della responsabilità dei liquidatori individuati dal più volte citato articolo 36 d.P.R. 602/73. Parimenti corretta risulta, inoltre, la diversa lettura della norma, ancora una volta suggerita dal ricorrente e dal Procuratore Generale, che esclude, diversamente da quanto affermato dal Tribunale, secondo il quale l’ambito di operatività della disposizione sarebbe attinente all’omesso versamento dei tributi propri della società in liquidazione e non di quelli ai quali essa è tenuta nella sua qualità di sostituto di imposta. Va a tale proposito considerato, infatti, il contenuto dell’art. 35 del d.RR. 602/1973, il quale dispone che “quando il sostituto viene iscritto a ruolo per imposte, sopratasse e interessi relativi a redditi sui quali non ha effettuato né le ritenute a titolo di imposta né i relativi versamenti, il sostituito è coobbligato in solido” senza alcun riferimento ai tributi propri della società di liquidazione. Ne consegue che il provvedimento impugnato deve essere annullato con rinvio al Tribunale di Roma per nuovo esame alla luce di quanto in precedenza affermato, dovendo i giudici del rinvio, sulla base degli atti e della documentazione nella loro disponibilità, verificare se la condotta ascritta all’indagato abbia o meno travalicato i limiti posti dall’art. 36 d.P.R. 602/1973 alla responsabilità del liquidatore”.

3. Con il ricorso qui proposto, si è premesso che il dott. B. ha assunto l’incarico di liquidatore di una società, di cui unico proprietario e socio è il Comune di Albano, che gestisce un servizio pubblico di scuola dell’obbligo affidato in regime di convenzione con Regione Lazio e Provincia di Roma per i Comuni di Albano, Marino, Pomezia, Velletri, Colleferro e Valmontone. Avendo il liquidatore ricevuto con l’incarico anche il mandato di tentare il recupero del raggruppamento di corsi e scuole dell’obbligo, ha assunto una serie di iniziative con concrete speranze di superare il periodo di crisi della società, tra le quali s’inscrive la creazione di una nuova società (F. s.r.l.) alla quale è stato conferito il ramo d’azienda concernente la gestione del servizio scuola al fine di assicurare la continuità operativa del servizio pubblico. Si censura, dunque, l’ordinanza impugnata per i seguenti motivi:

a) violazione dell’art. 623, comma 1, lett. a) cod.proc.pen. perché il giudice del rinvio non si è uniformato ai principi di diritto dettati dalla sentenza di annullamento. Partendo dal presupposto che alla responsabilità del liquidatore volontario il legislatore ha posto un limite quantitativo parametrato sull’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti, il ricorrente ne deduce che il principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento avrebbe dovuto condurre alla conseguenza per cui solo in sede di graduazione dei crediti si sarebbe potuta accertare la consumazione del reato, quando con il deposito del bilancio finale della procedura di liquidazione si sarebbe avuta contezza della misura dei crediti d’imposta che non hanno trovato capienza;

b) violazione dell’art. 623, comma 1, lett. a) cod.proc.pen. e correlate violazioni degli artt. 2489, commi 1 e 2, 2495, commi 1 e 2, cod. civ. Posto che alla procedura di liquidazione volontaria deve riconoscersi carattere concorsuale, l’ordinanza impugnata ha violato il principio di diritto enunciato dalla Terza Sezione della Corte di legittimità per non avere tenuto conto del fatto che compito del liquidatore è anche quello di compiere atti utili di gestione per la conservazione del patrimonio sociale in vista di una ripresa dell’attività aziendale, correlando la sua responsabilità al compimento di atti non funzionali alla salvezza del patrimonio sociale anche in funzione del soddisfacimento di tutti i creditori secondo la loro graduazione in sede di riparto finale;

c) violazione dell’art. 125, comma 3, cod.proc.pen. per mancanza di motivazione o motivazione apparente, nonochè dell’art. 546, comma 1, lett. e) cod.proc.pen. per totale mancanza di motivazione sulle ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le prove della difesa a sostegno dell’assoluta indisponibilità, in qualsiasi momento della gestione, di somme che potessero essere destinate al pagamento del credito erariale;

d) violazione degli artt. 23, comma 2, 24 e 25 L.R. Lazio n.23/1992 che stabilisce che i contributi dati dalla Regione alla società che gestisce il servizio pubblico della scuola dell’obbligo e per l’avviamento professionale anche di una cospicua aliquota a ridotta abilità costituiscono fondi vincolati;

e) violazione dell’art. 321, comma 2, cod.proc.pen. in relazione all’art. 240, comma 1, cod. pen. per avere il tribunale confermato un provvedimento di sequestro su beni che non possono costituire profitto del reato nonché vizio di motivazione sul punto. Non costituendo i beni sequestrati il prezzo del reato, non è possibile la confisca obbligatoria e, per la confisca facoltativa, non si tratta di beni costituenti profitto del reato in quanto il risparmio costituito dall’omesso pagamento del debito tributario riguarderebbe, eventualmente, la società piuttosto che il liquidatore.

4. Il Procuratore generale, in persona del dott. L. B., nella sua requisitoria scritta ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

5. Con memoria depositata il 28 gennaio 2017 il ricorrente ha sviluppato i motivi di ricorso precisando, tra l’altro, che le somme di denaro personale del liquidatore non possono considerarsi profitto del reato ed, in ogni caso, non possono essere sequestrate se non previa verifica che il profitto del reato non sia più rinvenibile nelle casse della società; nel caso in esame, il credito erariale avrebbe trovato capienza nelle entrate della società in ragione del conferimento del ramo d’azienda della A. s.p.A. alla F. s.r.l., sempre di proprietà del Comune di Albano.

Considerato in diritto

1. Va premesso che, a norma dell’art. 325 cod.proc.pen., il ricorso per cassazione può essere proposto soltanto per violazione di legge (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, Ferazzi, Rv. 22671001; Sez. 3, n. 45343 del 06/10/2011, Moccaldi, Rv. 25161601). Non superano, pertanto, il vaglio di ammissibilità le censure concernenti il vizio di motivazione.

2. Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono infondati.

Va ricordato che l’art. 10 bis d. Igs. 10 marzo 2000, n.74 (Omesso versamento di ritenute dovute o certificate) stabilisce che “E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta”.

2.1. L’annullamento dell’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma è intervenuto per erronea applicazione di norma integrativa della legge penale ed il giudice di rinvio aveva l’obbligo di uniformarsi alla decisione sui punti di diritto indicati dal giudice di legittimità. Si trattava, in particolare, di equiparare i tributi ai quali la società è tenuta nella sua qualità di sostituto d’imposta ai tributi propri della società in liquidazione al fine di verificare se la condotta dell’indagato

avesse travalicato, omettendo per l’anno 2013 il versamento delle ritenute fiscali IRPEF dei dipendenti e dei lavoratori autonomi retribuiti dalla A. s.p.A. in misura pari a complessivi euro 739.085,00, i limiti posti alla responsabilità dei liquidatori dall’art. 36 d.P.R. 29 settembre 1973, n.602, che così dispone: “I liquidatori dei soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. Tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti”.

2.2. Il Tribunale di Roma, quale giudice del rinvio, ha accertato che nel periodo 1 gennaio 2013/30 settembre 2014 le entrate della A. s.p.a. ammontarono ad euro 9.828.882,62 e che le uscite, superiori alle entrate, avevano riguardato emolumenti ed indennità per il personale amministrativo, contributi previdenziali, spese per attività formativa, spese per docenze esterne e per affitto delle sedi scolastiche, spese per consulenze professionali e per compenso del liquidatore. Tanto premesso, ha ritenuto sussistente il fumus boni iuris sul presupposto che i crediti tributari non potessero essere postergati ai crediti per locazione delle sedi scolastiche e per attività formativa, rimarcando che le spese per la locazione superavano di per sé l’importo dell’imposta evasa e che il termine di pagamento delle imposte era scaduto nel corso della gestione del B..

3. Occorre, dunque, ricordare l’ambito di ammissibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pronunciati in sede di rinvio. Premesso che secondo l’art. 628, comma 2, cod.proc.pen. il provvedimento emesso dal giudice del rinvio può essere impugnato soltanto per motivi non riguardanti i punti già decisi dalla Corte di Cassazione ovvero nel caso in cui il giudice di rinvio non si sia uniformato alle questioni di diritto decise dalla Corte, tale norma è stata ritenuta dalla Corte Costituzionale espressiva del principio della tendenziale irrevocabilità ed incensurabilità delle decisioni della Corte di Cassazione, che risponde alla finalità di evitare la perpetuazione dei giudizi e di conseguire quell’accertamento definitivo che, realizzando l’interesse fondamentale dell’ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche, costituisce lo scopo stesso dell’attività giurisdizionale, mostrandosi pertanto conforme alla funzione di giudice ultimo della legittimità affidato alla medesima Corte dall’art. 111 Cost. (Corte Cost. n. 136 del 3/07/1972, n.21 del 19/01/1982, n. 294 del 26/06/1995).

La norma in esame ha, dunque, la funzione di impedire che quanto deciso dalla Corte Suprema venga rimesso in discussione attraverso l’impugnazione della sentenza del giudice di rinvio (Sez. 2, n.41461 del 6/10/2004, Guerrieri, Rv. 230578). Se ne deve desumere l’inammissibilità del quarto motivo di ricorso in quanto inerente a questione di fatto, ossia la destinazione vincolata di fondi regionali, non sottoposta all’esame della Corte di legittimità con il ricorso originario (Sez. 1, n. 26299 del 23/06/2006, Onorio, Rv. 23501701).

4. Nel caso in esame, l’ordinanza impugnata risulta essersi attenuta al principio di diritto indicato dalla Terza Sezione della Corte di legittimità per le seguenti ragioni.

4.1. Giova ricordare, in primo luogo, che l’attività liquidatoria si caratterizza per la sussistenza di una causa di scioglimento, in altre parole la volontà sociale di estinguere in radice il rapporto intersoggettivo finalizzato all’esercizio in forma collettiva d’impresa. Le buone ragioni invocate dal ricorrente sul presupposto dell’esigenza di continuazione dell’attività societaria secondo il mandato ricevuto non risultano essere state valutate dalla Terza Sezione Penale, alla quale tale profilo fattuale era stato rappresentato, come idonee ad escludere la preminente finalità liquidatoria dell’incarico ricevuto dal dott. B..

4.2. Non ulteriormente contestabile risulta, poi, l’equiparazione, ai fini dell’applicazione della norma extrapenale costituita dall’art. 36 d.P.R. n.602/1973, dei tributi dovuti dalla società quale sostituto d’imposta ai tributi propri della società. Tale equiparazione necessita, tuttavia, di un chiarimento laddove si debba accertare il momento consumativo del reato.

Secondo la giurisprudenza di legittimità in materia tributaria, è possibile sostenere che l’art. 36 d.P.R. n. 602/1973 configuri un’obbligazione civilistica e non tributaria per fatto proprio del liquidatore, derivante dall’applicazione degli artt. 1176 e 1218 cod. civ., e richiede la contemporanea presenza di tre condizioni: a) l’esistenza e la definitività del debito tributario in capo alla società; b) la presenza di attività nel patrimonio della società in liquidazione; c) l’utilizzazione di tali attività per scopi diversi dal pagamento delle imposte dovute (Sez. 5 civile, n. 11968 del 13/07/2012, Rv. 62333101; Sez. 5 civile, n. 8685 del 17/06/2002, Rv. 55508701).

Ora, la condotta tipica del reato ipotizzato a carico del ricorrente prevede quale termine di consumazione della condotta omissiva (rispetto all’imposta) e commissiva (rispetto alla distrazione dell’attivo) la data stabilita per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta. Secondo il ricorrente, la funzione integratrice dell’art.36 d.P.R. n.602/1973 rispetto al precetto penale si estenderebbe fino ad incidere sul momento consumativo, posticipandolo alla data di deposito del bilancio finale della liquidazione.

La problematica sorge in quanto nella liquidazione non esiste un ordine prestabilito di graduazione dei debiti né una norma analoga all’art. 55 della legge fallimentare secondo cui, per effetto della dichiarazione di fallimento, i debiti si considerano scaduti. Posto che la responsabilità del liquidatore sorge nel caso in cui le attività sociali siano state utilizzate per scopi diversi dal pagamento delle imposte, occorre interrogarsi sulle conseguenze relative al previo pagamento, da parte del liquidatore, di altri creditori. Al riguardo, è possibile affermare che l’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, facendo riferimento a “crediti di ordine inferiore a quelli tributari”, contenga un implicito rinvio alle disposizioni codicistiche sui privilegi (artt. 2777 ss. cod. civ.). Se ne deve desumere, in via interpretativa, che la responsabilità dei liquidatori non scatta in ogni caso, ma solo se e nella misura in cui essi, nel procedere ai pagamenti entro la data fissata per la dichiarazione annuale del sostituto d’imposta, abbiano soddisfatto crediti considerati di ordine inferiore dalla legge.

Come già chiarito dalla Corte di Cassazione in un caso concernente il sostituto d’imposta (Sez. 3, n. 25875 del 26/05/2010, Olivieri, Rv. 24815101), la fattispecie penale prevista dall’art.10 bis d.Lgs. n.74/2000 non coincide affatto con quella dell’inadempimento all’obbligo di versamento delle ritenute operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti prevista dalla normativa tributaria, dovendosi ritenere diverso il termine per l’adempimento. Mentre la norma tributaria si riferisce alle ritenute operate mensilmente e fissa quale termine per il versamento delle stesse all’erario il giorno sedici del mese successivo, l’art. 10 bis ha ad oggetto le ritenute complessivamente operate nell’anno di imposta, cui si riferisce la soglia di punibilità fissata dalla norma, e prevede quale termine per l’adempimento quello stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta (30 settembre dell’anno successivo), con la conseguenza che col maturare di tale scadenza si verifica l’evento dannoso per l’erario previsto dalla fattispecie penale. Sicché la condotta omissiva, che ha ad oggetto il versamento delle ritenute afferenti all’intero anno di imposta, si protrae fino alla scadenza del citato termine, che coincide con la data di commissione del reato, mentre a nulla rileva il già verificatosi inadempimento agli effetti fiscali.

Il legislatore ha, in altre parole, considerato penalmente rilevanti non tanto le omissioni avvenute durante il periodo d’imposta quanto l’omesso versamento, in sede di dichiarazione annuale, delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti ed, inoltre, ha richiesto la sussistenza del dolo generico / facendo salvi quei comportamenti originati da provata dimenticanza o da sola/ . colpa. Comportamenti che, nel caso in cui siano posti in essere dal liquidatore, dovranno altresì essere estesi alle indicate ipotesi di mancanza di attivo o di distrazione dei pagamenti per crediti anteriori nell’ordine dei privilegi.

4.3. Conclusivamente, i limiti posti alla responsabilità civile del liquidatore dall’art. 36 d.P.R. n.602/1973 rilevano anche a fini penali solo in quanto valgano a delimitare il precetto escludendone le condotte di inadempimento all’obbligo tributario determinate da mancanza di attivo o da pagamento di crediti considerati superiori nell’ordine dei privilegi, ma non incidono sul momento consumativo del reato come determinato dalla norma incriminatrice. Né risulta condivisibile l’interpretazione data nel ricorso al principio di diritto enunciato dalla Terza Sezione nella sentenza di annullamento laddove si è ritenuto che il richiamo alla commisurazione della responsabilità “ai crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti” imponesse al giudice di rinvio di interpretare il precetto penale nel senso di posticipare a tale ultima fase, coincidente con il momento conclusivo della procedura di liquidazione, anche l’accertamento del fumus boni iuris in merito alla responsabilità penale del liquidatore.

4.4. La sentenza n.21987/2016 ha, infatti, richiamato tale limite “quantitativo”, che ben si attaglia al giudizio di determinazione della responsabilità civile ma risulta estraneo ai criteri di determinazione della sanzione penale, peraltro indicata dall’art.10 bis d. Igs. n.74/2000 nella sola pena detentiva, al solo fine di illustrare la speciale disciplina che il legislatore ha delineato tenendo conto della particolare attività svolta dal liquidatore. Risulta, pertanto, arbitrario ed estraneo al principio di diritto che il giudice del rinvio era tenuto ad applicare ritenere che detto richiamo potesse intendersi nel senso auspicato dal ricorrente.

5. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato, posto che nell’ordinanza impugnata si sono indicate, con specificazione del loro ammontare, le somme delle quali l’indagato ha disposto per pagare debiti di grado inferiore a quello tributario.

6. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile secondo quanto anticipato al par.3.

7. Il quinto motivo di ricorso è infondato.

7.1. Il Tribunale di Roma ha ritenuto sempre consentita la confisca di beni nella disponibilità del colpevole per un valore corrispondente a quello del profitto.

La lettera dell’art. 12 bis d.Igs. n.74/2000 dispone che “Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”.

7.2. Si tratta di norma che prevede, in materia di reati tributari, la confisca “per equivalente”, per definizione concernente beni che non sono in rapporto di pertinenzialità con il reato.

7.3. Le censure inerenti al difetto di motivazione, sviluppate con motivi aggiunti, non superano il vaglio di ammissibilità sia per quanto premesso al par.l sia perché proposte per la prima volta in questa sede.

8. Il ricorso deve, conseguentemente, essere rigettato; segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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