Corte di Cassazione

20 Aprile 2019

Cass. Civ., Sez. Trib., sentenza 7 aprile 2017 n. 9094

Corte di Cassazione, sezione tributaria, sentenza del 7 aprile 2017, n. 9094

Fatti di causa

In esito all’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi per gli anni dal 2003 al 2005 da parte della s.r.l. (…) l’Agenzia ha proceduto ad accertamento induttivo nei confronti della società di maggiore materia imponibile, ai fini Iva, Irap e delle imposte dirette. Ne sono scaturiti avvisi di accertamento con i quali sono state recuperate le maggiori imposte, oltre alle sanzioni ed agli interessi. La contribuente ha impugnato gli avvisi, sostenendo che le dichiarazioni fossero state tardivamente presentate e che il ritardo fosse esclusivamente imputabile all’intermediario incaricato della trasmissione telematica, secondo quanto desumibile anche dall’impegno alla trasmissione e dalla dichiarazione resi da costui.

La Commissione tributaria provinciale ha accolto il ricorso e quella regionale ha respinto l’appello dell’Ufficio, facendo leva sulla documentazione esibita in giudizio dalla società, che ha evidenziato, oltre ai componenti positivi di reddito valorizzati dall’Agenzia, anche quelli negativi; documentazione che, ha sottolineato il giudice d’appello, i verificatori avrebbero potuto consultare sin dall’accesso e che legittimamente è stata esibita in sede giudiziale, non sussistendo i presupposti per l’operatività della preclusione stabilita dall’art. 52, 5° co., del d.P.R. n. 633/72. La Commissione ha anche annullato le sanzioni irrogate alla società, a fronte della dichiarazione di responsabilità rilasciata dall’intermediario che, a suo giudizio, ha concretato la buona fede della contribuente.

L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso contro questa sentenza, che ha articolato in tre motivi, cui i tre soci, dei quali il primo anche nella qualità di liquidatore della società, nel frattempo cancellata dal registro delle imprese, hanno reagito con controricorso, illustrato con memoria.

Ragioni della decisione

1 – Il ricorso è inammissibile nei confronti della società, evocata in giudizio dall’Agenzia sebbene si riferisca in ricorso della sua estinzione per cancellazione dal registro delle imprese dovuta a cessazione di attività e sebbene l’Agenzia ne abbia evocato in giudizio i soci. La stabilizzazione della posizione giuridica della società derivante dall’applicazione del principio dell’ultrattività del mandato, difatti, è venuta meno per effetto giustappunto dell’evocazione e della costituzione in giudizio dei soci, successori, sia pure sui generis, della società (arg. ex Cass., sez.un., 4 luglio 2014, n. 15295; conf., 18 gennaio 2016, n. 710 e 29 luglio 2016, n. 15762).

2. – Il ricorso è poi senz’altro infondato per carenza di legittimazione passiva nei confronti del liquidatore. Ciò in quanto l’Agenzia non ha fatto valere la responsabilità del liquidatore in base all’art. 2495 c.c. o anche in base all’art. 36 del d.P.R. n. 602/73, sibbene l’obbligazione tributaria induttivamente accertata nei confronti della società.

3.- Il ricorso è, invece, ammissibile nei confronti dei soci, contrariamente a quanto sostenuto in controricorso ed in memoria. I soci, a sostegno dell’eccezione di carenza della loro legittimazione, nonché dell’interesse ad agire del fisco, hanno allegato e documentato, ex art. 372 c.p.c., mediante produzione della visura camerale e del bilancio finale di liquidazione risalente al 26 ottobre 2012, successivamente quindi alla pubblicazione della sentenza impugnata, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso per cassazione, che nessuna somma è stata loro ripartita per mancanza di attivo.

3.1.- Questa circostanza senz’altro non incide sulla loro legittimazione, giacché non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei loro confronti l’azione originariamente intrapresa dal creditore sodale verso la società (in termini, Cass., sez.un., 12 marzo 2013, nn. 6070 e 6072). Non può per conseguenza essere condiviso l’orientamento di recente espresso da questa Corte, richiamato in memoria (Cass., ord. 23 novembre 2016, n. 23916 e, in precedenza, 26 giugno 2015, n. 13259; ancora più esplicita Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444), secondo cui si può ritenere che gli ex soci siano subentrati dal lato passivo nel rapporto d’imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, di modo che l’accertamento di tali circostanze costituisce presupposto della assunzione, in capo a loro, della qualità di successori e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo. Queste conclusioni non sono difatti in linea con i principi affermati dalle sezioni unite, che individuano, invece, sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata, ma non definiti all’esito della liquidazione, indipendentemente, dunque, dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione.

3.2.- Che i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente neanche ai fini dell’esclusione dell’interesse ad agire del fisco creditore.

Le sezioni unite, con le sentenze da ultimo indicate, hanno riconosciuto che la circostanza si potrebbe riflettere sul requisito dell’interesse ad agire, ma hanno ammonito che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto. Si può porre il caso, che le stesse sezioni unite hanno esaminato, di diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con la sola esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (vedi, al riguardo, Cass. 19 ottobre 2016, n. 21105, che ha riconosciuto l’interesse ad agire del creditore che abbia esperito azione revocatoria ove la società debitrice alienante si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese).

La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti. Nè persuasiva pare, al riguardo, la pronuncia di Cass. 22 luglio 2016, n. 15218, che sul punto si limita ad affermare che <<Il suddetto limite di responsabilità -ossia quello stabilito dall’art. 2495 c.c.- si riflette sul requisito dell’interesse ad agire nei confronti dei soci, evidentemente carente laddove, come nello specifico, nessuna riscossione di somme vi sia stata all’esito della procedura di liquidazione».

4.- Nel merito, col secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c., che va esaminato preliminarmente, perchè logicamente prodromico alla valutazione del primo, l’Agenzia delle entrate lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 52, 5° co., del d.P.R.n. 633/72, là dove il giudice d’appello ha reputato utilizzabile la copiosa documentazione contabile prodotta dalla contribuente per la prima volta in sede contenziosa, in spregio della preclusione d a quella disposizione stabilita.

La censura anzitutto postula una circostanza di fatto, ossia che la società abbia dichiarato di non possedere nel corso della verifica i documenti in questione, incompatibile con gli accertamenti svolti in sentenza, nella quale si legge che <<..In sede di verifica la Guardia di Finanza ha avuto la possibilità di accedere alle scritture contabili del contribuente e pertanto era perfettamente in grado di valutare i componenti positivi e negativi di reddito ai fini dell’eventuale recupero a tassazione di maggiore imposta») accertamenti, che non sono stati aggrediti con deduzione di vizio di motivazione. E giova sottolineare che incombe sull’Amministrazione l’onere di provare i provare i presupposti di fatto di applicazione del 5° comma dell’art. 52 del d.P.R. n. 633/72, ossia che il contribuente abbia nella sostanza rifiutato di esibire la documentazione richiestagli (da ultimo, vedi Cass. 11 agosto 2016, n. 16960).

Generica è inoltre l’eccezione concernente la mancanza di data certa della documentazione esibita, in quanto tale documentazione non è neanche per sunto descritta, in modo da consentire alla Corte di delibare la fondatezza dell’obiezione.

Il motivo va quindi respinto.

5. – Il che determina la conseguenziale infondatezza del terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c., col quale l’Agenzia lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 41 del d.P.R. n. 600/73, nonché dell’art 55 del d.P.R. n. 633/72, là dove il giudice d’appello ha riconosciuto il potere dell’Ufficio di ricorrere all’accertamento induttivo, ma ha aggiunto che la ricostruzione del reddito si sarebbe dovuta operare sulla base delle risultanze contabili allegate dalia parte. Ciò in quanto la legittimità dell’accertamento, sotto il profilo del metodo utilizzato, va valutata in base ai presupposti di legge esistenti all’epoca della sua adozione (Cass. 6 luglio 2016, n. 13735): e nel caso in esame la disponibilità accertata in sentenza della documentazione, che la stessa Amministrazione definisce copiosa, evidenzia la correttezza della statuizione impugnata, secondo cui i verificatori prima e l’Agenzia poi avrebbero dovuto considerare gli elementi da tale documentazione emergenti.

6. – Infondato è, infine, il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c., col quale l’Agenzia si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 3, 10° co., del d.P.R. n. 322/98, nonché degli artt. 5 e 6 del d.lgs. n. 472/797, là dove la Commissione tributaria regionale ha escluso l’applicabilità delle sanzioni facendo leva sull’asserita mancanza di colpevolezza della società in ordine alla tardiva presentazione delle dichiarazioni, esclusivamente imputabile all’intermediario incaricato.

L’estinzione della società ha determinato difatti l’intrasmissibilità della sanzione (arg. ex art. 8 del d.lgs. n. 472/97), regola che costituisce corollario del principio della responsabilità personale, codificato nell’art. 2, 2° co., del medesimo decreto, sia ai soci, sia al liquidatore. E tale principio assume viepiù rilevanza, ove si consideri che l’art. 7, 1° comma, del d.l. 30 settembre 2003 n. 269, convertito con I. 24 novembre 2003 n. 326, ha introdotto il canone della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie (in relazione al quale si veda, tra le più recenti, Cass. 3 luglio 2015, n. 13730).

6.1. – La regola è principio di ordine generale, che definisce la fattispecie astratta sanzionatoria e che, in conseguenza, va applicata anche d’ufficio.

7. – Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso nei confronti della società estinta e lo rigetta nei confronti dei soci e del liquidatore. Condanna l’Agenzia a pagare le spese nei confronti delle parti costituite, che liquida in euro 7.000,00 per compensi, oltre al 15% a titolo di spese forfettarie ed oltre agli accessori.

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