Corte di Cassazione

1 Maggio 2019

Cass. Civ., Sez. Lavoro, 19 luglio 1997, 6645

Sentenza n. 6645 del 19-07-1997 – Cassazione Civile –  Sezione Lavoro

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 14 giugno 1991, il Pretore – giudice del lavoro di Pescara accoglieva la domanda proposta dalla sig.ra Tiziana Velluto nei confronti del commercialista dott. Giovanni Fratamico per il pagamento di L. 6.394.000, quale residuo importo di spettanze di lavoro di impiegata (addetta ad un computer per la gestione della contabilità forfettaria dei clienti ed alla tenuta dei relativi registri) che la prima assumeva di avere svolto alle dipendenze del secondo dal 2 novembre 1987 al 9 maggio 1988, normalmente per otto ore al giorno (quattro al sabato). ll Pretore disattendeva così l’assunto difensivo del convenuto – secondo cui la Velluto avrebbe frequentato lo studio solo per acquisire pratica professionale (come essa aveva dichiarato espressamente per iscritto) ed avrebbe ricevuto il solo rimborso delle spese di viaggio per complessive L. 350.000; rigettava, poi, perché non provata in punto di colpa, la domanda riconvenzionale del Fratamico per il risarcimento di un danno ammontante a L. 3.005.000 che la controparte avrebbe cagionato ad un computer.

L’appello proposto dal Fratamico è stato rigettato, con sentenza in data 27 maggio 1993/18 settembre 1994, dal Tribunale – Sezione del lavoro della stessa sede.

Per la cassazione della sentenza del Tribunale ricorre il Fratamico con tre motivi.

L’intimata non si è costituita.

Motivi della decisione

Col primo motivo di annullamento il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c. civ. in relazione all’art. 1322 c. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, n.ri 3 e 5 c.p.c.) e si duole della svalutazione da parte del Tribunale della volontà negoziale, espressa univocamente in ben tre scritti dalla Velluto nel senso della instaurazione di un rapporto di praticantato, volontà che invece aveva carattere decisivo ai fini della controversia in ragione anche del reciproco affidamento delle parti e che, comunque, avrebbe dovuto essere considerata unitariamente con il momento attuativo del rapporto; sotto tale profilo era rilevante la circostanza che non era stata prevista corresponsione di retribuzione.

Col secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 1322 c. civ. in relazione agli artt. 116 e 247 c.p.c. (art. 360, n. 3 c.p.c.); nonché omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia e si duole che il Tribunale non abbia ritenuto di dover considerare la deposizione della teste Ficca, mentre a seguito della sentenza n. 248 del 1974 della Corte costituzionale, la deposizione non avrebbe potuto essere considerata inattendibile per la sola circostanza che proveniva dal coniuge, senza che fosse posto in rilievo alcun ulteriore elemento che desse ragione di tale inattendibilità. In base alle dichiarazioni di detta teste sarebbe stata da escludere la configurabilità del rapporto di lavoro subordinato. Ad eguale conclusione, del resto, avrebbe dovuto indurre il testuale tenore delle altre deposizioni testimoniali (in particolare quella di tale Petricone); il Tribunale non aveva reso esplicito il procedimento logico attraverso il quale da tali testimonianze era giunto a configurare il rapporto di lavoro subordinato, così impedendo ogni controllo in merito. Aveva poi avuto riguardo al mero contenuto dell’attività lavorativa, trascurando ogni indagine in ordine al regime di svolgimento di essa (particolarmente in punto di mancata corresponsione di retribuzione) e l’insegnamento di questa Corte secondo cui non vi è attività lavorativa che in sé e per sé possa qualificarsi subordinata, dipendendo invece tale qualificazione dalla sottoposizione dell’attività in questione ai tipici poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro.

I due motivi, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione delle critiche svolte, sono infondati.

In ordine alle censure di violazione di legge, si rileva come la giurisprudenza di questa Corte suprema, esaminando la questione, sotto diversi aspetti analoga, dei criteri discretivi del lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo (nel caso di specie l’alternativa sarebbe stata, invece, quella di un rapporto di praticantato), ha precisato che occorre fare riferimento al concreto atteggiarsi del rapporto nel suo effettivo svolgimento, in particolare alle caratteristiche e alle modalità della prestazione lavorativa e alla natura dell’attività oggetto della prestazione (Cass. 16 gennaio 1996, n. 326; 17 dicembre 1994, n. 10829; 7 dicembre 1981, n. 6492; 30 novembre 1982, n. 6507; 11 maggio 1982, n. 2935; 9 marzo 1981, n. 1326). In particolare, ha sottolineato che la comune volontà delle parti deve essere valutata con riferimento sia al momento della stipulazione che a quello della esecuzione del negozio, attraverso il comportamento complessivo dei contraenti ed un esame globale e non separato degli elementi differenziatori dei due tipi di rapporto in contestazione (v., in particolare, a quest’ultimo proposito, Cass. N. 1326/1981 e 2935/1981 citate).

A tali canoni si è correttamente attenuto il Tribunale che, senza minimamente trascurare di considerarla, ha ritenuto di minore importanza la qualificazione attribuita dalle parti al contratto di lavoro rispetto alle concrete modalità di svolgimento dello specifico rapporto le quali, secondo il giudice di appello, hanno connotato in modo assolutamente decisivo il tipo di contratto che i contraenti hanno voluto concretamente porre in essere. Pertanto erano del tutto secondarie le  lettere in cui la Velluto aveva espresso la volontà di svolgere la pratica presso il commercialista, anche in considerazione (secondo il giudice di merito) della possibile coartazione della volontà della giovane in cerca di prima occupazione. Le attività svolte da costei, secondo le prove  testimoniali, erano state di carattere esecutivo, prive di qualsiasi contenuto formativo o professionale, ripetitive, proprie di un impiegato d’ordine, di modestissimo livello intellettuale e prive di qualsivoglia contenuto professionale, né vi era prova di insegnamenti impartiti alla giovane dal professionista; le diverse dichiarazioni della teste Ficca non erano attendibili in quanto si trattava della moglie del Fratamico. Ricorrevano, per contro, secondo quel Collegio, tutti gli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato (inserimento nella struttura organizzativa, sottoposizione al potere direttivo e disciplinare; rispetto di orario predeterminato).

Il giudice di merito, dunque, mentre ha puntualmente riscontrato tutti gli elementi che, secondo giurisprudenza oramai consolidata, contraddistinguono il rapporto di lavoro subordinato, ha escluso che fossero riscontrabili, alla luce della istruttoria esperita, le connotazioni proprie del praticantato la cui causa è quella di assicurare da parte di un professionista al giovane praticante quelle nozioni indispensabili per l’attuazione, nella prospettiva e nell’ambito di una futura e determinata professione intellettuale, della formazione teorica ricevuta in ambito scolastico (a parte la considerazione che dalla stessa scrittura in data 11 marzo 1988 che il ricorrente assume di avere versato nei giudizi di merito e che adduce costituire prova di un semplice rapporto di praticantato risulterebbe, per quanto trascritto nel ricorso, che la Velluto non aveva ancora conseguito il titolo di studio per l’accesso alla vera e propria pratica professionale, onde l’inammissibilità della censura di omessa considerazione da parte del Tribunale di tale produzione, certamente non decisiva ai fini della configurazione del rapporto che il Fratamico sostiene essere intercorso con la controparte e della esclusione del rapporto di lavoro. Sulle connotazioni del rapporto di tirocinio o di praticantato e sull’onere probatorio a carico di chi lo invoca, v. Cass 28 ottobre 1978, n. 4946; 29 gennaio 1973, n. 276). Né il Fratamico può trarre argomento in favore della propria tesi dalla circostanza che la controparte non ricevette retribuzione per l’attività prestata: non solo, infatti, la giovane ha sostenuto di avere ricevuto, seppure in misura del tutto trascurabile, un corrispettivo (pagamento imputato, invece, dal Fratamico a semplice rimborso delle spese di viaggio), ma ha dedotto a fondamento della pretesa proprio l’inadempimento di controparte all’obbligo di corrispondere la retribuzione. In una controversia di tal genere, dunque, la mera circostanza storica che non vi fu pagamento della retribuzione finisce con avere un significato assolutamente neutro ai fini della qualificazione del rapporto, trattandosi precisamente di stabilire se si trattasse di inadempimento datoriale all’obbligo nascente da un rapporto di lavoro subordinato (nel quale l’obbligazione retributiva costituisce oggetto tipico del sinallagma) o di elemento caratterizzante il diverso tipo di rapporto prospettato dal ricorrente.

Quanto alle doglianze attinenti al preteso vizio di motivazione le stesse sono del pari infondate.

Costituisce ius receptum che nel controllo in sede di legittimità della adeguatezza della motivazione del giudizio di fatto contenuto nella sentenza impugnata, i confini tra la debita verifica della indicazione da parte del giudice di merito di ragioni sufficiente, senza le quali la sentenza è invalida e, d’altro lato, il non ammissibile controllo della bontà e giustizia della decisione possono essere identificati considerando che, in linea di principio, quando la motivazione lascia comprendere le ragioni della decisione, la sentenza è valida. Tale rilievo non esclude la necessità che dalla motivazione risulti il rispetto, nella soluzione della questione di fatto, dei relativi canoni metodologici, dall’ordinamento direttamente espressi o comunque da esso ricavabili.

Tuttavia siffatta verifica può concernere la legittimità della base del convincimento espresso dal giudice di merito e non questo convincimento in se stesso, come tale incensurabile. È in questione, cioè, non la giustizia o meno della decisione, ma la presenza di difetti sintomatici di una possibile decisione ingiusta, che tali possono ritenersi solo se sussiste una adeguata incidenza causale dell’errore oggetto di possibile rilievo in cassazione, esigenza cui la legge allude con il riferimento al punto decisivo (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 326/1996 cit.).

Come detto dianzi, il giudice di merito ha tratto il proprio convincimento circa la natura di lavoro subordinato propria del rapporto in questione dall’insieme delle prove testimoniali assunte; ha dato atto che la moglie del Fratamico aveva deposto in senso difforme dagli altri testi, ma la ha ritenuta meno attendibile di essi in ragione del rapporto coniugale. La valutazione delle prove testimoniali è affidata in via esclusiva al giudice di merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione: l’art. 360, n. 5 c.p.c. non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito (v. Cass. n. 8653 del 1994). A tale proposito, non è assolutamente viziato il giudizio del Tribunale secondo cui la teste Ficca, moglie del Fratamico, non poteva essere valutata come pienamente attendibile.

D’altro lato, il Tribunale non era tenuto a riportare testualmente le altre deposizioni alla luce delle quali aveva formato il proprio convincimento. Al contrario, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sarebbe stato onere del ricorrente riportare nello stesso ricorso le deposizioni di quei testi che il Tribunale, secondo la sua prospettazione, avrebbe malamente apprezzato, mentre, pur essendo richiamata dal Fratamico la deposizione di tale Petricone, in alcun modo viene riportato il tenore di essa onde si rende impossibile non solo

valutare l’eventuale vizio logico in cui sarebbe incorso il Tribunale nell’apprezzarla, ma, ancor prima, la decisività di tal prova ai fini della decisione della controversia.

Col terzo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2104 c. civ. (art. 360 n. 3 c.p.c.) e di ogni norma e principio in materia di responsabilità contrattuale; Omessa, insufficiente contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.). In presenza di responsabilità contrattuale, essendo addirittura pacifico l’evento dannoso e l’uso esclusivo del computer da parte della Velluto (e comunque la circostanza sarebbe risultata dalla deposizione della teste Ficca) e risultando dalla prova testimoniale anche la prova della condotta colposa (cattiva manualità nella digitazione) secondo la diagnosi del tecnico riferita dalla Ficca, sarebbe stato comunque onere, rimasto insoddisfatto, della Velluto dar prova di avere rispettato le regole di diligenza e di perizia e quindi della non imputabilità del danno.

Il motivo è infondato.

In ordine alla riconvenzionale, il Tribunale ha osservato che, a parte le dichiarazioni della moglie del Fratamico, ritenuta non attendibile, non erano state acquisite prove certe circa il tipo di imperizia imputabile alla Velluto, né sull’attribuzione ad essa della causazione del danno (in particolare non vi era prova che la tastiera danneggiata del computer venisse usata da lei soltanto), inoltre l’inesperienza della dipendente avrebbe imposto maggior cura da parte del datore di lavoro nell’impartirle le necessarie istruzioni o nel vigilare sull’esecuzione del lavoro.

Il giudice di merito ha dunque ritenuto insussistente, anzitutto, la prova circa la riconducibilità causale dell’evento lesivo alla condotta della dipendente: le censure in ordine alla valutazione da parte dello stesso giudice, su tale punto, delle risultanze processuali (non contestazione, siccome fatto, addirittura, pacifico, da parte della Velluto, dell’uso esclusivo da parte sua del computer danneggiato; dichiarazioni della teste Ficca) sono inammissibili perché del tutto generiche e non rispettose del richiamato principio di autosufficienza del ricorso. Ai fini della affermazione della responsabilità del lavoratore verso il datore di lavoro per un evento dannoso verificatosi nel corso dell’espletamento delle mansioni affidategli, è infatti, anzitutto, onere del datore di lavoro dar prova che l’evento dannoso è da riconnettere ad una condotta colposa del lavoratore per violazione degli obblighi di diligenza, e cioè in rapporto di derivazione causale da tale condotta.

Solo una volta che risulti assolto tale onere il lavoratore dovrà provare la non imputabilità a sé dell’inadempimento (cfr. in particolare, Cass. 12 febbraio 1979, n. 949). Tali considerazioni, non avendo il datore di lavoro, secondo il convincimento del giudice di merito, provato l’inadempimento di controparte, sono con tutta evidenza assorbenti rispetto alle ulteriori censure, in punto di onere della prova a carico della lavoratrice, contenute nel motivo.

Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura il ricorso deve essere rigettato. Non v’é luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità in favore della parte vittoriosa non costituitasi.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; e nulla per le spese. Così deciso in Roma, addì 21 febbraio 1997.

Depositata in Cancelleria il 19 Luglio 1997.

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