Corte di Cassazione

23 Aprile 2019

Cass. Civ., Sez. II, sentenza 3 febbraio 2017 n. 2927

Corte di Cassazione, II Sezione civile, sentenza 3 febbraio 2017, n. 2927

Svolgimento del processo

1. La Commissione Regionale di Disciplina Emilia Romagna irrogava al notaio G.V. la sanzione della sospensione dalla professione per mesi otto, dichiarandolo responsabile delle infrazioni contestate ai sensi dell’art. 147 a) e b) legge n. 89 del 1913 nonché delle violazioni di cui all’art. 3 ter d.lgs 463 del 1997 e degli artt. 29, 42, 45 e 50 dei principi di deontologia dei notai.

L’addebito formulato a carico del notaio scaturiva da un accertamento compiuto dall’Agenzia delle Entrate di Reggio Emilia, da cui era risultato che, nell’arco temporale compreso fra il 28 -12-2004 e il 25-5-2009, il notaio aveva trattenuto importi versati dalle parti ed indicati in fattura in misura superiore a quelli dovuti e pagati quale sostituto di imposta a titolo di imposta di registro.

Con ordinanza dep. il 23 febbraio 2016 la Corte di appello di Bologna rigettava il reclamo.

Per quel che ancora interessa nella presente sede i Giudici, premesso che per alcuni illeciti disciplinari andava dichiarata la prescrizione, ritenevano – in relazione al secondo gruppo di atti in contestazione – che non poteva essere condivisa la tesi del notaio che aveva giustificato il deposito, a titolo prudenziale, di maggiori somme sul rilievo che fosse ipotizzabile una maggiore tassazione secondo una diversa interpretazione della normativa tributaria.

Al riguardo, la Corte precisava che in relazione agli atti in esame (casi 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31) era emerso o che l’imposta, era stata autoliquidata dal Notaio in misura corretta ma era stata versata in misura inferiore rispetto alla somma, ricevuta dal cliente o che la somma, versata all ‘erario corrispondeva all ‘imposta correttamente liquidata ma era inferiore alla somma corrisposta dal cliente. In ogni caso, dunque, il Notaio aveva incassato a titolo di imposta dal cliente una somma superiore a quella versata a tale titolo.

In relazione alla questione del termine entro il quale il Notaio può essere considerato solidalmente responsabile nei confronti dell’Erario per la ripresa di eventuali differenze di imposta c.d. principale, la Corte, disattendendo la giustificazione in proposito data dal notaio, escludeva l’interpretazione dal medesimo data dell’art. 76 d.p.r. 1986 (applicazione del termine triennale) ritenendo, per quel che riguardava la registrazione telematica, che dovesse trovare applicazione il termine di sessanta giorni, posto che il termine triennale è fatto decorrere dalla data di registrazione prevista solo per la imposta suppletiva. Peraltro, anche nell’ipotesi in cui fosse stata da accogliersi la interpretazione del notaio, la costituzione di un deposito in via prudenziale avrebbe richiesto il consenso dei clienti risultante da scrittura che nella specie non era stata mai predisposta; anzi l’indicazione in fattura della voce spese anticipate aveva fuorviato la informazione dei clienti.

Era esclusa la sussistenza una presunzione di consenso ed era invece affermato che sarebbe stato onere del notaio offrire la relativa prova.

La richiesta di prova era disattesa sul rilievo che, a prescindere dalla esiguità dei casi in relazione ai quali il notaio aveva chiesto di provare il consenso, non erano state indicate le parti dell’atto ma i professionisti e consulenti. Peraltro, dagli atti penali era emerso che il clienti non erano stati informati delle iniziative assunte dal notaio.

Rilevata la sproporzione fra la pretesa prudenza adottata dal notaio e la scarsa attenzione per gli interessi dei clienti, la Corte riteneva che la condotta del notaio integrasse le previsioni di cui all’art. 147 lett. a) e b) in relazione alla sistematica violazione delle norme deontologiche.

Erano disattese le censure sollevate dal reclamante in ordine al trattamento sanzionatorio, irrogato in relazione alla gravità della vicenda, posto che comunque erano state concesse le attenuanti generiche e, proprio in considerazione di ciò non era stata irrogata la più grave sanzione della destituzione chiesta dal Consiglio notarile.

2. – Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il V. sulla base di cinque motivi.

Resiste con controricorso l’intimato.

Le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Preliminarmente va rilevato che il ricorrente ha formulato istanza di rimessione del ricorso alle Sezioni unite per la decisione: a) della questione di massima di particolare importanza, su cui la Corte di Cassazione non si è mai pronunciata, circa l’applicabilità al procedimento disciplinare e alle sanzioni a carico dei notai del principio in tema di divieto del bis in idem e della regola n. 4 del Protocollo n. 7 CEDU (oggetto del primo motivo del ricorso); b) della questione in merito all’azione e ai termini per il recupero della maggior imposta da parte dell’Erario nei confronti del notaio (oggetto del terzo motivo).

L’istanza va disattesa, in considerazione della inammissibilità o infondatezza, come meglio si vedrà infra, delle questioni in relazione alle quali è stata invocata la rimessione alle S.U.

1.1. Il primo motivo censura la ordinanza impugnata per non avere dichiarato improcedibile l’azione disciplinare proposta dal Consiglio notarile, tenuto conto che, per effetto della prodotta sentenza penale passata in cosa giudicata della Corte di appello di Bologna, per gli stessi fatti il notaio era stato ritenuto responsabile dei reati di peculato (in riferimento ai 12 atti oggetto delle imputazioni) e di truffa in danno dei clienti (per 72 degli atti in contestazione, per gli altri vi era stata pronuncia di assoluzione e di prescrizione), essendo stato disposto il rinvio dalla Cassazione soltanto ai fini della rideterminazione della pena (il notaio era stato condannato alla pena di un anno e nove mesi di reclusione e a quella accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di un anno): seppure non vi fosse perfetta coincidenza fra le imputazioni penali (le contestazioni erano riferite a 201 rogiti) e quelle disciplinari (relative a 31 rogiti), gli elementi costitutivi degli illeciti disciplinari erano riconducibili alla medesima condotta accertata in sede penale; in presenza della sostanziale sovrapponibilità dei fatti coperti dal giudicato con quelli oggetto del presente giudizio, avrebbero dovuto applicarsi nella specie i principi affermati con la sentenza Grande Stevens e altri contro Italia emessa dalla CEDU in tema di divieto del bis in idem di cui all’art. 4 protocollo n. 7 Convenzione; evidenzia la natura penale del presente giudizio disciplinare, in considerazione: a) degli interessi generali a tutela dei quali sono dettate le disposizioni in materia notarile, come del resto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione; b) della funzione essenzialmente punitiva delle sanzioni disciplinari.

Ove avesse ritenuto ostative ai principi dettati dalla CEDU le norme del diritto interno la Corte di appello avrebbe dovuto sollevare la questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost.

1.2. – Il motivo va disatteso.

In primo luogo, in relazione ai requisiti di ammissibilità della censura, va osservato che – se è pur vero che il giudicato esterno è assimilabile agli “elementi normativi”, sicché la sua interpretazione deve effettuarsi alla stregua dell’esegesi delle norme, non già degli atti e dei negozi giuridici – la violazione, denunciata ai sensi dell’art. 2909 cod. civ., postula che la doglianza abbia il carattere della specificità: il ricorso avrebbe dovuto trascrivere o riassumere quanto meno stralci significativi della decisione passata in giudicato in modo da dimostrare la identità tra i fatti accertati nel giudizio penale e quelli oggetto del presente procedimento disciplinare, così da consentirne alla Corte di Cassazione la verifica. Il che non è avvenuto nella specie – non essendo sufficienti il riferimento a pag. 17 del ricorso o gli altri richiami in esso contenuti – e sarebbe stato tanto più necessario se si considera, da un lato, che, secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo, il divieto del bis in idem ovvero di emettere plurime condanne per lo stesso fatto a seguito di due procedimenti penali postula la perfetta coincidenza dei fatti storici, che integrano la condotta oggetto dell’illecito, e che, d’altro lato, siffatta ipotesi dovrebbe escludersi nelle specie secondo quanto riferito ancora nel ricorso (gli atti presi in esame in sede penale sarebbero 201 mentre quelli oggetto del disciplinare sono trentuno).

Peraltro, seppure tali considerazioni potrebbero ritenersi assorbenti di ogni altra, per completezza si rileva comunque l’infondatezza della doglianza.

Occorre innanzitutto premettere che in materia di responsabilità disciplinare dei notai, l’art. 147, lett. a), della legge n. 89 del 1913, come modificato dal d.lgs n. 249 del 2006, configura come illecito condotte che, seppur non tipizzate, siano comunque idonee a ledere la dignità e la reputazione del notaio, nonché il decoro ed il prestigio della classe notarile, la cui individuazione in concreto è rimessa agli organi di disciplina ed è integrato, dalle regole di etica professionale e dal complesso dei principi di deontologia professionale. In sostanza, la condotta intanto è sanzionabile in quanto ne sia in concreto accertata la idoneità a ledere l’interesse meritevole di tutela. Va al riguardo ancora sottolineato che, mentre integra l’ipotesi di cui all’art. 147 a) anche la occasionale condotta illecita, assume rilevanza sotto il profilo di cui all’art. 147 b) la reiterata violazione delle norme di cui ai Principi di deontologia professionale dei notai.

Alla stregua di tali premesse, non possono condividersi i richiami formulati dal ricorrente alla giurisprudenza della CEDU in tema di violazione del divieto del bis in idem con riferimento alla natura (penale) delle norme sanzionatorie dettate in tema di illecito disciplinare dei notai.

In primo luogo, deve escludersi l’identità delle fattispecie in presenza delle quali si configurano la responsabilità penale e quella disciplinare, atteso che gli elementi costitutivi dell’illecito disciplinare si realizzano, come si è detto, ove i comportamenti posti in essere possano provocare discredito al notaio e alla intera categoria ovvero ancora quando si realizza la violazione ripetuta e non occasionale dei principi di deontologia professionale.

D’altra parte, in relazione alla natura penale della norma incriminatrice, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte europea, la verifica va compiuta secondo i tre criteri, noti comunemente come i “criteri di Engel” (cfr. Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, Serie A n. 22). Il primo criterio è la qualificazione giuridica del reato in base al diritto nazionale, il secondo è il carattere stesso del reato e il terzo è il grado di severità della pena in cui rischia di incorrere la persona interessata. Il secondo e il terzo criterio sono alternativi e non necessariamente cumulativi. Ciò non esclude tuttavia un approccio cumulativo se l’analisi distinta di ciascun criterio non permette di raggiungere una conclusione chiara sull’esistenza di un’accusa penale (v. Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30-31, CEDU 2006 XIV; e Ezeh e Connors c. Regno Unito [GC], nn. 39665/98 e 40086/98, §§ 82-86, CEDU 2003 x).

Se non può darsi rilevanza alla qualificazione giuridica, operata secondo la legislazione e la valutazione dello stato nazionale, il carattere penale della norma va determinato con riferimento alla natura intrinseca della fattispecie incriminatrice e va escluso qualora essa, come nel caso di procedimenti disciplinari a carico dei notai, abbia come destinatari – contrariamente a quanto avvenuto, ad es. nelle fattispecie considerate dalla CEDU con le recenti sentenze del 10 febbraio 2015, KIIVERI/FINLANDIA e del 15 novembre 2016, sul ricorso n. 24130/11 contro NORVEGIA (aventi a oggetto illeciti in materia tributaria previsti da disposizioni di carattere generale nei confronti dei contribuenti) – gli appartenenti a un ordine professionale e sia preordinata allo effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti assegnati ai notai dall’ordinamento. Ed invero, la responsabilità disciplinare dei notai trova fondamento nella violazione di precetti che sono dettati con la finalità essenzialmente preventiva di assicurare il rispetto di regole deontologiche, la cui osservanza ha l’obiettivo specifico che sia effettivamente attuata la funzione istituzionale del notaio – che è preposto alla verifica della conformità degli atti al modello legale – e, attraverso i poteri di vigilanza e repressivi del Consiglio Notarile, che sia impedito l’esercizio della professione in contrasto con quelli che sono i principi ai quali deve ispirarsi il comportamento del notaio. Pertanto, in considerazione della autonomia e della specificità delle misure volte a contrastare la violazione dei doveri dei notai, le sanzioni disciplinari non possono farsi rientrare nel sistema sanzionatorio penale e tale quadro normativo non è certo contraddetto dall’applicabilità al procedimento disciplinare di istituti mutuati dal diritto penale in considerazione, da un canto, della rilevanza dell’interesse tutelato e, dall’altro, dalla esigenza di assicurare idonee garanzie a tutela dei soggetti incolpati. Del resto, il principio dell’autonomia e dell’eterogeneità del sistema sanzionatorio in sede penale e in sede di disciplinare, seppure con riferimento al procedimento disciplinare dei magistrati – sotto il profilo in esame del tutto sovrapponibile a quello nei confronti dei notai – è stato enunciato dalle Sezioni Unite della S.C., con la decisione n. 4004 del 2016, secondo cui è possibile la “irrogazione della, sanzione della rimozione anche dopo il giudicato penale di condanna con pena accessoria di estinzione del rapporto d’impiego, atteso che gli effetti della sanzione disciplinare permangono, mentre quelli della sanzione penale possono estinguersi per amnistia o riabilitazione” (SU 4004 del 2016).

2.1. – Il secondo motivo censura la ordinanza impugnata laddove, nell’aderire alle conclusioni del ctu e disattendendo quelle del consulente di parte circa la differenza fra le somme corrisposte dai clienti e quelle ricevute dal notaio, aveva ritenuto che non sarebbe stata possibile alcuna diversa e possibile tassazione per cui non sarebbe stato giustificabile il comportamento prudenziale del notaio. Evidenzia alla stregua dei contratti stipulati e al loro oggetto, come la tassazione operata dal notaio fosse opinabile e quindi giustificato il deposito prudenziale per quegli importi che il fisco avrebbe potuto richiedere.

3. Il terzo motivo censura l’ordinanza impugnata laddove – in relazione alle maggiori somme trattenute a titolo prudenziale fino al momento in cui l’Agenzia avrebbe potuto pretenderne la restituzione nel caso di correzione della maggior imposta liquidata dall’Ufficio a garanzia delle maggiori somme di cui il notaio avrebbe potuto essere chiamato a corrispondere – aveva erroneamente escluso – in contrasto con lo stesso dato letterale di cui all’art. 76 co. 2 del d.p.r. 131 del 1986 – l’applicabilità del termine triennale agli atti registrati telematicamente, per i quali era anche prevista la presentazione della richiesta di registrazione ex art. 42 co. 1 del d.p.r. 131 del 1986.

4. Il quarto motivo censura la decisione della Corte di appello laddove aveva ritenuto che, anche nel caso in cui si fosse voluta accogliere la interpretazione del notaio, comunque sussisteva la responsabilità per l’assenza di consenso ai depositi. Deduce che: in effetti la mancanza di consenso integrava un elemento costitutivo dell’illecito contestato e non, come ritenuto dalla Corte, un esimente il cui onere probatorio sarebbe stato a carico del notaio; era stata erroneamente disattesa la richiesta di prova articolata al riguardo dal notaio.

5. Il secondo, il terzo e il quarto motivo – che, per la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente – vanno disattesi.

L’ordinanza impugnata si fonda su una duplice ratio decidendi, in quanto la Corte – dopo avere escluso la legittimità del deposito a titolo prudenziale per la durata indicata dal notaio (esistenza del termine triennale di cui all’art. 76 del d.p.r. 131 del 1986) per il recupero da parte dello Stato nei confronti del sostituto di imposta delle maggiori somme che, secondo il notaio, l’Erario avrebbe potuto chiedere in considerazione della possibile maggiore tassazione applicabile – ha comunque ritenuto la responsabilità del notaio per non avere il medesimo ottenuto il preventivo consenso dei clienti che non erano stati informati di tali iniziative; con motivata valutazione, che si sottrae al sindacato di legittimità, ha disatteso in proposito la richiesta di prova, ritenendola priva di decisività.

Per quel che riguarda la ripartizione dell’onere della prova, censurato con il quarto motivo, i Giudici hanno fatto corretta applicazione dell’art. 2697 cod. civ., atteso che il Consiglio aveva dimostrato – a fondamento della incolpazione per violazione delle nome del codice deontologico – la esistenza dei fatti costitutivi ovvero la riscossione da parte del notaio di somme versate dai clienti a titolo di imposte risultate maggiori di quelle corrisposte o dovute all’Erario, sicché sarebbe stato il notaio a dovere offrire la prova del fatto impeditivo, costituito dal prestato consenso da parte dei clienti, consenso che avrebbe escluso il carattere illecito del trattenimento di tali somme.

Orbene, essendo tale ratio decidendi idonea di per sè a sorreggere la motivazione, sono inammissibili le censure sollevate con il secondo motivo e il terzo motivo e ciò dicasi indipendentemente dal rilevare la novità delle doglianze formulate con il secondo mezzo (laddove l’ordinanza ha rilevato la genericità dei rilievi mossi alla consulenza di ufficio) senza dire che le stesse si risolvono nella richiesta di rivalutazione degli elementi di fatto ovvero le fattispecie negoziali di cui agli atti rogati. Ne consegue che Inammissibile anche la questione relativa alla interpretazione dell’art. 76 co. 2 del d.p.r. 131 del 1986 ovvero alla determinazione del termine entro il quale l’Agenzia delle Entrate può agire nei confronti del notalo per il recupero delle somme dovute (terzo motivo), posto che nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di Interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato.

6.1. Il quinto motivo censura la determinazione della sanzione irrogata, non avendo la Corte di appello tenuto conto della sopravvenuta declaratoria di prescrizione di alcuni (quattro) degli illeciti contestati (trentuno).

6.2. Il motivo è infondato.

Non sussiste la denunciata violazione di legge avendo la Corte, con accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, determinato la sanzione con riferimento alla gravità della condotta che è stata valutata in considerazione : della sistematicità della condotta;

– dell’importo delle somme riscosse in eccedenza rispetto alle imposte;

– della infedeltà del notaio nel rapporto con i clienti; della risonanza dei fatti.

Le spese della presente fase vanno poste a carico del ricorrente, risultato soccombente.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater,del d.p.r. 115 del 2002, inserito dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/2012, ratione temporis applicabile, va dichiarata la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13 (ndr comma 1 bis dello stesso art. 13).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in euro 8.200,00 di cui euro 200,00 per esborsi ed euro 8.000,00 per onorari di avvocato oltre accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater,del d.p.r. 115 del 2002, Inserito dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13 (ndr comma 1 bis dello stesso art. 13).

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