Corte Costituzionale

6 Settembre 2019

Corte Costituzionale, Sentenza 29 Maggio 2019, n. 133

Corte costituzionale, Sentenza 29 maggio 2019, n. 133


Presidente: Lattanzi – Redattore: Viganò


[…] nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 147, secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 30 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249, recante «Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, lettera e), della legge 28 novembre 2005, n. 246», promosso dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, nel procedimento vertente tra B. B. e il Consiglio notarile di Milano e altri, con ordinanza del 15 novembre 2017, iscritta al n. 35 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti gli atti di costituzione di B. B. e del Consiglio notarile di Milano, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 17 aprile 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi gli avvocati Francesco Marone e Massimo Rossi per B. B., Matteo Gozzi per il Consiglio notarile di Milano e l’avvocato dello Stato Leonello Mariani per il Presidente del Consiglio dei ministri.

RITENUTO IN FATTO

1.- Con ordinanza del 15 novembre 2017 la Corte di cassazione, sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 147, secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 30 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249, recante «Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, lettera e), della legge 28 novembre 2005, n. 246».

1.1.- Espone la sezione rimettente di essere investita del ricorso proposto da un notaio, B. B., avverso l’ordinanza della Corte d’appello di Milano del 12 luglio 2017, con la quale è stato rigettato il gravame contro una decisione della Commissione amministrativa regionale di disciplina (CO.RE.DI.) della Lombardia, che aveva inflitto a B. B la sanzione disciplinare della destituzione ai sensi della disposizione censurata.

Riferisce il giudice a quo che B. B. era già stata due volte ritenuta responsabile – nel 2012 e nel 2013 – dell’illecito previsto dall’art. 147, primo comma, della legge n. 89 del 1913, per non avere versato all’erario le somme versatele dai clienti per la registrazione e la trascrizione degli atti rogati. Nel primo caso le era stata inflitta la sanzione della sospensione per la durata di due mesi, e nel secondo caso quella della sospensione per la durata di un anno. Avendo nel 2015 la CO.RE.DI. ritenuto nuovamente responsabile B. B. per altre condotte integranti l’illecito disciplinare di cui all’art. 147 della legge n. 89 del 1913, la stessa CO.RE.DI. aveva ritenuto di dover applicare il secondo comma di detta disposizione, il quale prevede che «la destituzione è sempre applicata se il notaio, dopo essere stato condannato per due volte alla sospensione per la violazione del presente articolo, vi contravviene nuovamente nei dieci anni successivi all’ultima violazione».

1.2.- Ad avviso della sezione rimettente, la disposizione censurata detta una norma di carattere speciale rispetto alla regola generale di cui all’art. 144 della legge n. 89 del 1913, che disciplina l’applicazione delle circostanze attenuanti agli illeciti disciplinari dei notai, prevedendo in particolare che – ove le stesse siano ritenute sussistenti – alla sanzione della destituzione sia sostituita quella della sospensione. Tale regola generale non opererebbe, secondo il giudice a quo, nella particolare fattispecie di recidiva reiterata infradecennale prevista dalla disposizione censurata, nella quale sarebbe sempre doveroso applicare la sanzione massima della destituzione: il trattamento sanzionatorio risulterebbe infatti, in tal caso, «insensibile alla eventuale “lievità” in concreto del fatto costituente illecito disciplinare, essendo la sanzione prevista dalla legge in modo inderogabile, sulla base di una presunzione iuris et de iure di gravità del fatto».

1.3.- La sezione rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disciplina.

1.3.1.- Essa sarebbe, anzitutto, in contrasto con l’art. 3 Cost.

Il giudice a quo richiama, in proposito, la giurisprudenza di questa Corte in materia di proporzionalità della pena rispetto al disvalore del fatto illecito commesso, giurisprudenza che si porrebbe in consonanza con l’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE). Da tale giurisprudenza discenderebbe, in particolare, il divieto di automatismi sanzionatori, i quali impedirebbero di adeguare la pena alle effettive responsabilità personali; divieto che la giurisprudenza costituzionale avrebbe esteso dal campo del diritto penale alla materia delle sanzioni disciplinari (sono citate le sentenze n. 268 del 2016 e n. 363 del 1996 in materia di sanzioni per i militari, la sentenza n. 170 del 2015 in materia di sanzioni per i magistrati e la sentenza n. 2 del 1999 in materia di sanzioni per i ragionieri e periti commerciali).

Con specifico riferimento alla responsabilità disciplinare dei notai, il rimettente rileva come la sentenza n. 40 del 1990 di questa Corte abbia dichiarato – per violazione del «principio di proporzione» discendente dall’art. 3 Cost. – l’illegittimità costituzionale dell’art. 142, ultimo comma, della legge n. 89 del 1913, nella parte in cui prevedeva la destituzione di diritto del notaio che fosse stato condannato per determinati delitti, in relazione alla «automatica ed indifferenziata previsione [della sanzione massima] per l’infinita serie di situazioni che stanno nell’area della commissione di uno stesso, pur grave, reato».

Analogamente, la disposizione ora censurata non consentirebbe al giudice disciplinare di graduare la sanzione in relazione alla gravità del caso concreto; ciò che, invece, apparirebbe necessario dal punto di vista dell’art. 3 Cost., dal momento che l’art. 147 della legge n. 89 del 1913 abbraccia fattispecie di illecito disciplinare «che possono avere, nei diversi casi concreti, una gravità molto diversa tra loro». La disposizione censurata, insomma, darebbe vita ad «una sorta di “automatismo sanzionatorio” correlato ad una presunzione iuris et de iure di gravità del fatto e di pericolosità del recidivo reiterato, che preclude al giudice disciplinare di pervenire – nella fattispecie concreta – a diverse conclusioni mediante il giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti (anche generiche) eventualmente concorrenti». Una simile presunzione iuris et de iure dovrebbe considerarsi illegittima, secondo la giurisprudenza di questa Corte richiamata dal rimettente, ogniqualvolta sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sono citate le sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).

«Elevato» sarebbe, dunque, il rischio che, nel procedimento disciplinare notarile, il giudice della disciplina si trovi costretto a infliggere una sanzione di entità eccessiva, e non ragionevole in rapporto al concreto disvalore della condotta.

La disciplina censurata, in definitiva, contrasterebbe con l’art. 3 Cost. «sia sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza per il fatto di assimilare situazioni che – di volta in volta – possono avere un disvalore molto diverso l’una dall’altra, sia sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, impedendo al giudice disciplinare l’adeguamento della sanzione alla gravità in concreto dell’illecito commesso».

1.3.2.- Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata confliggerebbe, altresì, con l’art. 24 Cost., «per il fatto di precludere all’incolpato la possibilità di chiedere al giudice di apprezzare la sua condotta in concreto e di pervenire all’irrogazione della sanzione più adeguata al caso».

1.4.- Le questioni prospettate sarebbero infine rilevanti, avendo la Corte d’appello rifiutato di considerare la possibilità di riconoscere al notaio incolpato le circostanze attenuanti generiche, sul presupposto che le stesse non avrebbero potuto in ogni caso escludere l’irrogazione della destituzione, quale sanzione prevista inderogabilmente dalla legge.

2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni prospettate siano dichiarate inammissibili o, in subordine, infondate.

Eccepisce l’Avvocatura generale che il giudice a quo si sarebbe sottratto al dovere di sperimentare un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.

Ritiene infatti l’Avvocatura generale che l’art. 144 della legge n. 89 del 1913 preveda «in via generale e senza alcuna esclusione di tipo soggettivo od oggettivo – riferita cioè al tipo di illecito commesso -, la possibilità di “convertire” e sostituire la sanzione disciplinare più grave astrattamente prevista e l’infrazione accertata» in presenza di una serie di circostanze suscettibili di attenuare la gravità dell’infrazione commessa, ponendo così in condizioni l’autorità disciplinare di adeguare la sanzione in funzione dell’effettiva gravità del fatto accertato, con esclusione di ogni automatismo sanzionatorio. La disciplina prevista dall’art. 144 si applicherebbe, dunque, anche nel caso previsto dal secondo comma dell’art. 147 della legge n. 89 del 1913, in questa sede censurato; di talché la sanzione della destituzione, prevista per l’ipotesi in cui il notaio sia già stato condannato per due volte alla sanzione della sospensione del decennio anteriore in relazione agli illeciti disciplinari previsti dal primo comma, resterebbe applicabile nella sola ipotesi in cui non siano ravvisabili nel caso concreto le circostanze attenuanti di cui all’art. 144.

La correttezza di tale interpretazione sarebbe, d’altra parte, «confermata dalla considerazione che sarebbe assolutamente illogico e veramente irragionevole ritenere che il legislatore del 2006, nel riformare organicamente il sistema disciplinare e sanzionatorio notarile, abbia volutamente ignorato i principi chiaramente affermati in materia [da questa Corte] sin dal 1990 (sent. n. 40/1990) riproducendo nelle nuove norme quell’automatismo espulsivo che già più di 15 anni prima era stato dichiarato contrario a Costituzione».

Tali considerazioni renderebbero le questioni prospettate inammissibili e, comunque, infondate.

3.- Si è costituita in giudizio la parte privata B. B., concludendo per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale prospettate.

Rilevato come, a suo giudizio, nel caso concreto sussistessero le circostanze attenuanti ai sensi dell’art. 144 della legge n. 89 del 1913, contrariamente a quanto ritenuto dalla CO.RE.DI., la parte privata sottolinea come la Corte d’appello non abbia ritenuto di esaminare la relativa doglianza difensiva proprio in ragione dell’inapplicabilità dell’art. 144 alla peculiare ipotesi di recidiva prevista dalla disposizione censurata. Dal che la rilevanza delle questioni prospettate.

Nel merito, le questioni sarebbero fondate, sulla base dei medesimi argomenti sviluppati nell’ordinanza di rimessione. In particolare, la parte privata sottolinea come le ragioni, che la menzionata sentenza n. 40 del 1990 di questa Corte aveva posto a base della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’automatismo sanzionatorio allora censurato, valgano a maggior ragione rispetto alla disposizione in esame, dal momento che l’automatismo scrutinato nella sentenza n. 40 del 1990 era pur sempre connesso alla sopravvenienza di una condanna in sede penale, che non è invece necessaria a integrare gli illeciti disciplinari di cui all’art. 147, i quali abbracciano condotte di disvalore assai diverso l’una dall’altra.

4.- Si è costituito in giudizio anche il Consiglio notarile di Milano, controricorrente nel giudizio a quo, chiedendo invece che le questioni siano dichiarate infondate.

Sottolineata la gravità delle condotte per le quali B. B. era stata sanzionata con la sospensione, il Consiglio notarile di Milano rileva come la delibazione compiuta dal giudice disciplinare in forza della disposizione censurata non sia «espressione di un acritico automatismo di giudizio», bensì costituisca «la conclusione di un procedimento analitico disciplinare che tiene conto della gravità della condotta e dei precedenti esistenti», profilandosi come «conseguenza adeguata e proporzionata a comportamenti pregressi contenuti nell’ambito temporale di 10 anni, particolarmente gravi e antitetici alla correttezza e alle qualità professionali».

La sanzione della destituzione non sarebbe, d’altronde, definitiva, ben potendo il notaio, di regola, chiedere di essere riabilitato una volta decorsi tre anni dalla destituzione.

Infine, il Consiglio notarile di Milano richiama la sentenza n. 234 del 2014, con la quale questa Corte ha ritenuto infondata una questione di legittimità costituzionale di altra disposizione della legge n. 89 del 1913, che escludeva la possibilità di riabilitazione in favore del notaio condannato per alcuni gravi reati, sottolineando in particolare come tale conseguenza automatica fosse pur sempre subordinata a un «motivato apprezzamento dell’organo disciplinare, censurabile in sede giurisdizionale e circoscritto a peculiari condotte».

5.- La parte privata B. B. ha depositato, in prossimità dell’udienza, memoria nella quale ha, in particolare, sostenuto l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, rilevando come il giudice a quo abbia puntualmente motivato la premessa interpretativa da cui ha preso le mosse, relativa all’impossibilità di applicare le circostanze attenuanti di cui all’art. 144 della legge n. 89 del 1913 all’ipotesi di recidiva disciplinata dalla disposizione censurata.

Replicando poi agli argomenti spesi dal Consiglio notarile di Milano nel proprio atto di costituzione, la parte privata B. B. ha osservato come – nel caso concreto oggetto del procedimento a quo – la sanzione della destituzione sia stata inflitta in relazione a condotte per le quali la stessa CO.RE.DI. avrebbe ritenuto «virtualmente adeguata» la sanzione della «sospensione di mesi sei»; sanzione che la stessa CO.RE.DI. non aveva però potuto applicare, proprio in ragione dell’automatismo previsto dalla disposizione censurata, che imponeva l’irrogazione della più grave sanzione della destituzione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 147, secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 30 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249, recante «Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, lettera e), della legge 28 novembre 2005, n. 246».

L’art. 147 della legge n. 89 del 1913 prevede, al primo comma, che sia «punito con la censura o con la sospensione fino ad un anno o, nei casi più gravi, con la destituzione» il notaio che pone in essere una serie di condotte di rilievo disciplinare, descritte dallo stesso primo comma. Il secondo comma, in questa sede censurato, dispone che «[l]a destituzione è sempre applicata se il notaio, dopo essere stato condannato per due volte alla sospensione per la violazione del presente articolo, vi contravviene nuovamente nei dieci anni successivi dall’ultima violazione».

Il giudice a quo dubita che tale disposizione confligga con gli artt. 3 e 24 Cost., introducendo un automatismo sanzionatorio correlato a una presunzione iuris et de iure di gravità del fatto e di pericolosità del recidivo reiterato, che impone al giudice disciplinare di applicare la sanzione più grave della destituzione, senza consentirgli di tenere conto di eventuali circostanze attenuanti, o comunque della concreta gravità della violazione.

2.- L’eccezione di omessa sperimentazione di un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, non è fondata.

2.1.- L’ordinanza di rimessione esclude espressamente che la sanzione della destituzione prevista dalla disposizione censurata possa essere sostituita dalla meno grave sanzione della sospensione in presenza di circostanze attenuanti, ai sensi dell’art. 144 della legge n. 89 del 1913. Secondo il giudice a quo, infatti, tale ultima disposizione generale non potrebbe trovare applicazione nell’ipotesi prevista dall’art. 147, secondo comma, in questa sede censurato, che opererebbe rispetto all’art. 144 quale lex specialis, prevedendo che – in caso di recidiva reiterata nell’illecito disciplinato dal primo comma dello stesso art. 147 – sia «sempre» applicata la destituzione.

2.2.- Secondo l’Avvocatura dello Stato, invece, tale interpretazione non sarebbe corretta, dal momento che l’art. 144 ben potrebbe trovare applicazione in tutte le fattispecie di illecito disciplinate dalla legge n. 89 del 1913, ivi compresa quella prevista dalla disposizione censurata. In tale prospettiva ermeneutica, dunque, l’avverbio «sempre» presente nell’art. 147, secondo comma, della legge n. 89 del 1913 varrebbe semplicemente a escludere l’alternatività, prevista dal primo comma dell’art. 147, tra le sanzioni della censura, della sospensione e della destituzione, imponendo al giudice disciplinare l’applicazione della destituzione in presenza dei presupposti del secondo comma; senza però escludere che, laddove sussista in concreto taluna delle circostanze attenuanti previste dall’art. 144, la destituzione possa essere sostituita con la sanzione della sospensione, ai sensi appunto dell’art. 144.

Tale interpretazione eviterebbe, dunque, l’automatismo denunciato dal rimettente, consentendo al giudice disciplinare di irrogare una sanzione meno grave della destituzione ogniqualvolta – per effetto della presenza di circostanze attenuanti – essa appaia sproporzionata rispetto alla concreta gravità dell’illecito della quale il professionista sia ritenuto responsabile.

2.3.- In conformità alla recente giurisprudenza di questa Corte, si deve tuttavia rilevare che l’astratta prospettabilità di un’interpretazione alternativa della disposizione censurata rispetto a quella fatta propria dal giudice a quo non inficia l’ammissibilità della questione, risultando a tal fine «sufficiente che il giudice a quo esplori la possibilità di un’interpretazione conforme alla Carta fondamentale e […] la escluda consapevolmente» (sentenza n. 262 del 2015; nello stesso senso, sentenze n. 254 e n. 69 del 2017, n. 111 del 2016 e n. 221 del 2015). E invero, il fatto che il rimettente abbia consapevolmente reputato che il tenore della disposizione censurata imponga una determinata interpretazione e ne impedisca altre, eventualmente conformi a Costituzione, non rileva ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, dal momento che la verifica dell’esistenza e della correttezza di interpretazioni alternative, che il rimettente abbia ritenuto di non poter fare proprie, è questione che attiene al merito del giudizio e non alla sua ammissibilità (ex plurimis, sentenze n. 194, n. 180, n. 69, n. 53 e n. 42 del 2017, e n. 95 del 2016).

Poiché l’ordinanza di rimessione ha motivatamente e non implausibilmente escluso l’applicabilità nel caso di specie dell’art. 144 della legge n. 89 del 1913, in ragione dell’affermata specialità della disposizione censurata, le questioni da essa sollevate devono ritenersi ammissibili ed essere esaminate nel merito sulla base dell’interpretazione fatta propria dal giudice rimettente.

3.- Nel merito, la questione sollevata con riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata.

3.1.- Il giudice a quo richiama, anzitutto, la giurisprudenza di questa Corte in materia di proporzionalità e individualizzazione delle pene, che considera con sfavore gli automatismi sanzionatori, in quanto normalmente inidonei ad assicurare che la pena sia commisurata dal giudice tenendo conto della concreta gravità del fatto del quale l’imputato sia stato ritenuto responsabile (da ultimo, sentenza n. 222 del 2018).

Al riguardo, è necessario tuttavia rammentare che tale giurisprudenza si fonda sul combinato disposto degli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., e ha dunque come necessario referente il principio della funzione rieducativa della pena, che la giurisprudenza di questa Corte ritiene non estensibile al di fuori della materia penale in senso stretto (sentenza n. 197 del 2018 e, in materia di sanzioni amministrative, sentenza n. 281 del 2013 e ordinanza n. 169 del 2013), ben potendo in particolare le sanzioni disciplinari essere orientate, oltre che agli scopi di prevenzione generale e speciale, insiti in ogni tipo di sanzione, anche all’obiettivo di preservare l’integrità etica e l’onorabilità della professione, nonché a quello di assicurare la rimozione dalle funzioni di persone dimostratesi non idonee, o non più idonee, all’assolvimento dei propri doveri (sentenze n. 197 del 2018 e n. 161 del 2018), senza dover essere necessariamente finalizzate anche alla “rieducazione” della persona colpita dalla sanzione.

Ne consegue che i principi sviluppati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di proporzionalità e individualizzazione della pena non possono essere sic et simpliciter traslati alla materia delle sanzioni disciplinari, ma devono essere adattati alle peculiarità di un sistema sanzionatorio che persegue obiettivi diversi rispetto a quelli cui il diritto penale è orientato, restando fermo, peraltro, il principio generale che sanzioni manifestamente sproporzionate alla gravità dell’illecito violano l’art. 3 Cost. (nonché i diritti fondamentali su cui tali sanzioni di volta in volta incidono), in quanto eccedenti gli scopi legittimi che le giustificano.

3.2.- In materia di sanzioni disciplinari, in numerose occasioni questa Corte ha ritenuto illegittime, per contrasto con l’art. 3 Cost., disposizioni che comportavano l’automatica destituzione del pubblico dipendente in conseguenza della sua condanna in sede penale per determinati reati (sentenze n. 268 del 2016, n. 2 del 1999, n. 363 del 1996, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 971 del 1988; ma, in senso contrario, sentenza n. 112 del 2014, relativa alla destituzione di diritto degli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza in conseguenza dell’applicazione di una misura di sicurezza personale). Un simile automatismo è stato, in particolare, ritenuto illegittimo al metro dell’art. 3 Cost. nella sentenza n. 40 del 1990, relativa a una disposizione che prevedeva la destituzione di diritto del notaio che avesse riportato una condanna in sede penale per uno dei reati indicati nell’art. 5, numero 3, della legge n. 89 del 1913.

La questione ora all’esame – così come quella decisa recentemente da questa Corte con la sentenza n. 197 del 2018 – non concerne, però, un automatismo legato al sopravvenire di una condanna in sede penale per determinati reati che comportino di per se stessi la destituzione, bensì la previsione di un’unica sanzione fissa a carico di chi sia ritenuto dal giudice disciplinare responsabile di un preciso illecito, anch’esso di natura meramente disciplinare. L’elemento differenziale rispetto alle questioni decise con le sentenze menzionate risiede, dunque, nella circostanza che la sanzione disciplinare è qui irrogata dal giudice disciplinare a conclusione di un procedimento nel quale egli stesso ha accertato la responsabilità dell’incolpato.

In simili situazioni, la valutazione che questa Corte è chiamata a compiere è se la previsione in termini indefettibili di una determinata sanzione sia suscettibile di condurre, nel caso concreto, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati alla gravità dell’illecito del quale l’interessato sia ritenuto responsabile: ciò che renderebbe la relativa previsione normativa contraria all’art. 3 Cost.

Nella sentenza n. 170 del 2015, questa Corte ha ritenuto in effetti illegittimo l’automatismo insito nella previsione automatica della sanzione del trasferimento del magistrato ad altra sede nel caso in cui questi fosse stato giudicato responsabile di un determinato illecito disciplinare, rimarcando in sostanza come la configurazione di tale illecito fosse tale da abbracciare condotte di disvalore assai differenziato, sì da creare il rischio che l’irrogazione indefettibile della sanzione del trasferimento conducesse a risultati sanzionatori sproporzionati rispetto alla concreta gravità dell’illecito.

Nella sentenza n. 197 del 2018, per contro, questa Corte ha ritenuto non manifestamente sproporzionata la sanzione fissa della rimozione a carico del magistrato giudicato responsabile dell’illecito disciplinare di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», in ragione dell’elevata gravità di tutte le condotte riconducibili alla fattispecie astratta dell’illecito in questione.

Parimenti, nella specifica materia della responsabilità disciplinare dei notai, la sentenza n. 234 del 2015 ha escluso l’illegittimità costituzionale dell’art. 159, terzo comma, della legge n. 89 del 1913, nella parte in cui preclude la speciale riabilitazione ivi prevista al notaio destituito nell’ambito di un procedimento disciplinare avviato in seguito alla sua condanna in sede penale per i delitti di «falso, frode, abuso d’ufficio, concussione, corruzione, furto, appropriazione indebita aggravata, peculato, truffa e calunnia». In tale sentenza si è in particolare rilevato come la preclusione censurata congiunga «il motivato giudizio dell’organo disciplinare», competente a disporre la destituzione, «con una tassativa predeterminazione, da parte del legislatore, del catalogo dei reati che ostano alla riabilitazione»; reati questi ultimi «selezionati, nell’ambito della vasta area del diritto penale, individuando fatti che in linea astratta sono suscettibili di spezzare la fiducia che la collettività ripone nel corretto esercizio delle pubbliche funzioni attribuite al notaio».

3.3.- Alla luce dei principi desumibili dalla giurisprudenza ora richiamata, la sanzione fissa della destituzione nella peculiare ipotesi prevista dall’art. 147, secondo comma, della legge n. 89 del 1913 non può ritenersi incompatibile con l’art. 3 Cost.

È bensì vero che, come osserva la parte privata B. B., le fattispecie astratte descritte – in termini peraltro assai lati – nel primo comma dell’art. 147 della legge n. 89 del 1913 abbracciano condotte di disvalore non necessariamente omogeneo, comprendendo in particolare qualsiasi condotta, attinente alla vita pubblica o privata, che comprometta, «in qualunque modo», la «dignità e reputazione» del notaio nonché «il decoro e prestigio della classe notarile», oltre che qualsiasi violazione «non occasionale» delle norme deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale del notariato. Tuttavia, l’obbligatoria applicazione della massima sanzione della destituzione scatta, a norma del secondo comma in questa sede censurato, soltanto quando il notaio sia stato ritenuto responsabile, per la terza volta nell’arco di un decennio, di uno degli illeciti previsti dal primo comma, e alla specifica condizione che per i primi due illeciti egli sia stato condannato alla sanzione della sospensione. Questa sanzione di per sé presuppone che il giudice disciplinare a suo tempo investito di tali illeciti abbia ritenuto gli stessi sufficientemente gravi da giustificare l’irrogazione non già di una mera censura, ma di una sospensione temporanea dall’esercizio della professione.

E allora, è proprio la constatazione che le sospensioni precedentemente inflitte, per illeciti essi stessi di significativa gravità, si siano rivelate inidonee a dissuadere il notaio dal compimento di illeciti disciplinari, a rendere non manifestamente sproporzionata – in un’ottica di gradualità della risposta sanzionatoria – la destituzione di colui che, rendendosi responsabile per la terza volta della medesima violazione – quale che sia, a questo punto, la concreta gravità della nuova condotta addebitatagli -, si dimostri inadeguato rispetto agli standard richiesti da una professione «destinata a garantire la sicurezza dei traffici giuridici, a propria volta preminente interesse dello Stato di diritto», e nella quale i consociati debbono poter riporre un «particolare ed elevato grado di fiducia» (sentenza n. 234 del 2015). Ciò tanto più in quanto, nelle ipotesi ora all’esame – a differenza di quelle cui si riferisce l’art. 159, terzo comma, della legge n. 89 del 1913, scrutinato nella menzionata sentenza n. 234 del 2015 -, al notaio destituito non è precluso ottenere la riabilitazione all’esercizio della professione ai sensi dello stesso art. 159, primo comma, lettera b), una volta che siano trascorsi tre anni dalla destituzione.

4.- Neppure risultano fondati i dubbi di costituzionalità della disciplina censurata sollevati con riferimento all’art. 24 Cost.

L’allegata compressione del diritto di difesa del notaio incolpato, che discenderebbe secondo il rimettente dall’impossibilità a carico dello stesso «di chiedere al giudice di apprezzare la sua condotta in concreto e di pervenire all’irrogazione della sanzione più adeguata al caso», costituisce infatti il mero riflesso della preclusione stabilita sul piano sostanziale dalla disposizione censurata, che vieta per l’appunto al giudice (disciplinare) di irrogare una sanzione diversa dalla destituzione, in presenza dei requisiti indicati dalla disposizione medesima. Una volta escluso che la disciplina sostanziale incorra essa stessa in un vizio di illegittimità costituzionale nel prevedere l’automatismo sanzionatorio in parola, anche questa ulteriore censura deve necessariamente ritenersi non fondata.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 147, secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 30 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249, recante «Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, lettera e), della legge 28 novembre 2005, n. 246», sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

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