Massime CNN Milano 142 143 144

Le nuove massime (n.ri 142, 143, 144) pubblicate dal Consiglio Notarile di Milano. O

142. Categorie di azioni e diritto di nomina di amministratori e sindaci (artt. 2348 comma 2, 2351 commi 2, 4 e 5 c.c.)

É legittima la clausola statutaria che attribuisce a una o più categorie di azioni, quale “diritto diverso” ai sensi dell’art. 2348 c.c., il diritto di nominare uno o più componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale, o del consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico.

Il numero degli amministratori, dei sindaci o membri del consiglio di sorveglianza nominabili da ciascuna categoria non deve necessariamente essere proporzionale al numero delle azioni della categoria medesima, né al numero dei voti ad esse spettanti, bensì può coincidere anche con la maggioranza o la totalità dei componenti dell’organo. Resta fermo il limite stabilito dall’art. 2351, comma 2, ult. frase, c.c., in forza del quale le azioni a voto “non pieno” (e pertanto anche quelle cui non spetta il diritto di nominare o di partecipare alla deliberazione di nomina di amministratori e sindaci) non possono comunque eccedere la metà del capitale sociale.

Il diritto di nomina rappresenta, di regola, un diritto da esercitare nell’ambito del procedimento decisionale dell’assemblea ordinaria, senza necessità di una autonoma e preventiva deliberazione dell’assemblea speciale di ciascuna categoria di azioni. E’ fatta salva una diversa disposizione statutaria, con riferimento sia alle modalità e alle procedure mediante le quali viene esercitato il diritto di nomina, sia all’efficacia della nomina stessa.

Anche in mancanza di un’espressa previsione in tal senso, deve in ogni caso ritenersi assicurata all’assemblea ordinaria in seconda convocazione, con l’intervento anche di una sola azione dotata di diritto di voto, la possibilità di nominare e revocare tutti i componenti degli organi sociali, ai sensi dell’art. 2369, comma 4, c.c.

Agli amministratori, ai sindaci e ai membri del consiglio di sorveglianza nominati nell’esercizio dei diritti spettanti a una o più categorie di azioni si applicano le medesime norme previste per gli altri componenti dell’organo cui partecipano.

MOTIVAZIONE

1. – La massima risolve in senso affermativo la questione dell’ammissibilità di una deroga statutaria del principio secondo il quale le cariche sociali sono nominate in modo collegiale da tutte le azioni riunite in assemblea ordinaria, senza distinzione tra “gruppi” di azioni o di azionisti. Pur restando ferma l’attribuzione della decisione alla competenza dei soci, si ritiene cioè che lo statuto possa diversamente allocare il potere di assumere la decisione nell’ambito della compagine sociale, mediante la configurazione di “diritti diversi” attribuiti a una o più categorie di azioni ai sensi dell’art. 2348 c.c.

La derogabilità della regola contenuta nell’art. 2383 c.c. (per la nomina degli amministratori) – già sostenuta da parte della dottrina e da altri orientamenti interpretativi del notariato – si giustifica sulla base del quadro complessivo delle norme in tema di formazione degli organi sociali, per come si è evoluto soprattutto dopo la riforma del 2003. In tale quadro, due elementi in particolare sorreggono l’interpretazione qui accolta:

(i) in primo luogo, il riconoscimento di un’ampia autonomia negoziale e statutaria nella creazione delle categorie di azioni e nella determinazione dei diritti ad esse attribuiti, ad opera proprio dell’art. 2348 c.c., che così dispone: “la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie” (enfasi aggiunta);

(ii) in secondo luogo, l’espressa previsione della possibilità per lo statuto di attribuire il diritto di nomina di componenti degli organi di amministrazione e controllo ad altri strumenti finanziari che partecipano al contratto sociale (artt. 2346, comma 6, e 2351, comma 5, c.c.). Con il che, il sistema sembra essere andato ben oltre all’ipotesi eccezionale dei diritti “particolari” di nomina di amministratori e sindaci ad opera dello Stato o di enti pubblici, previsto dall’art. 2449 c.c.. Gli strumenti finanziari partecipativi rappresentano infatti un istituto di carattere generale, a disposizione dell’autonomia negoziale e statutaria al fine di realizzare qualsiasi interesse meritevole di tutela, senza limitazioni né oggettive, né soggettive.

2. – La massima reputa inoltre non più sussistente, ammesso che lo fosse in passato, un rigido principio di proporzionalità tra il “peso” quantitativo delle azioni cui spetta, quale diritto di categoria, un diritto di nomina degli organi sociali e il numero dei componenti oggetto di tale diritto di nomina, nell’ambito di ciascun organo sociale. All’ampia concessione fatta dal legislatore del 2003 all’autonomia negoziale e statutaria nell’ambito delle categorie di azioni e degli (altri) strumenti finanziari partecipativi, si è recentemente aggiunta, con effetti probabilmente decisivi, l’abrogazione del divieto di emissione di azioni a voto plurimo (art. 2351, comma 4, c.c.).

Anche dopo tale modifica, si può continuare ad affermare che il principio di proporzionalità tra rischio e potere rappresenta la regola che connota il regime legale delle s.p.a. (pur nella manifestazione tipica dei sistemi “maggioritari”, nei quali chi ha la maggioranza “vince tutto”) e che trova applicazione in mancanza di diversa volontà dei soci. Si può altresì affermare che si tratta tutt’ora di un principio “tendenziale”, nel senso che gli spazi di deroga concessi all’autonomia statutaria, allorquando venga modificato il coefficiente di attribuzione del diritto di voto (1:1, un’azione, un voto), non sono illimitati, in quanto: (a) se il voto viene “quantitativamente” ridotto, vige il limite della metà del numero complessivo di azioni a voto non pieno, ai sensi dell’art. 2351, comma 2, c.c.; (b) se il voto viene “quantitativamente” aumentato, vige il limite del coefficiente massimo dei voti attribuibili a ciascuna azione, pari a 1:3 (un’azione, tre voti), ai sensi dell’art. 2351, comma 4, c.c. Ma non si può (più) affermare che sia incompatibile col sistema della s.p.a. una modifica del regime legale che attribuisca – in forza di una regola statutaria, valevole anche per tutta la durata la società e nei confronti di qualsiasi socio presente e futuro – ad una parte del tutto minoritaria delle azioni il diritto di controllare la società mediante la nomina di tutti gli amministratori: la mera combinazione di azioni a voto plurimo e azioni senza voto, può infatti consentire a chi detiene più del 12,5 per cento del capitale sociale di nominare tutti i componenti del consiglio di amministrazione.

Se è poi vero che tali strumenti tipici (azioni a voto non pieno e azioni a voto plurimo) hanno un limite inderogabile posto dalla legge, non si può non tener conto del fatto che essi possono comunque combinarsi con ulteriori strumenti tipici con cui può essere derogato il regime legale – si pensi al già citato diritto di nomina attribuibile agli strumenti finanziari partecipativi ex art. 2346, comma 6, c.c. – o con ulteriori istituti consentiti dalla legge che ottengono effetti analoghi – si pensi ai sistemi di voto di lista o alle altre “norme particolari” che lo statuto può prevedere per la nomina delle cariche sociali ai sensi dell’art. 2368, comma 1, c.c. – con un complessivo potenziale accrescimento dell’effetto “derogatorio” rispetto alla tendenziale proporzionalità tra rischio e potere.

Ciascuno di questi istituti, in altre parole, è soggetto a regole e limiti, più o meno esplicitamente risultanti dalla legge, che riguardano il singolo istituto, ma che non possono essere surrettiziamente estesi agli altri, sulla base di una dogmatica e indimostrata esigenza di preservare a tutti i costi quella proporzionalità tra rischio e potere. Se le azioni a voto limitato non possono essere in numero superiore alla metà delle azioni totali, non si può da ciò desumere l’inammissibilità di azioni a voto plurimo in numero inferiorealla metà delle azioni totali (asserendo che raddoppiare i voti delle azioni B equivale a dimezzare il voto delle azioni A): sono regole diverse, ciascuna dettata per una determinata tipologia di deroga rispetto al paradigma “un’azione, un voto”, ma sono comunque regole specifiche che non devono travalicare l’ambito a cui sono destinate. Allo stesso modo, ad esempio, dal limite quantitativo delle azioni senza voto non si può desumere un implicito limite degli strumenti finanziari partecipativi aventi diritti patrimoniali di partecipazione agli utili e agli altri risultati economici dell’impresa (asserendo che sarebbero equivalenti alle azioni senza voto).

Proseguendo su questa linea, non si può nemmeno traslare “matematicamente” il limite dettato per le azioni senza voto (massimo il 50 per cento del capitale) e per le azioni a voto plurimo (massimo coefficiente 1:3) all’ipotesi dell’attribuzione dei diritti di nomina di amministratori e sindaci a speciali categorie di azioni ai sensi dell’art. 2348 c.c., come nel caso oggetto della massima in epigrafe. La possibilità di combinare i diversi istituti sopra menzionati – azioni senza voto, azioni a voto plurimo, strumenti finanziari partecipativi con diritto di voto per la nomina delle cariche sociali, voto di lista, altre “norme particolari” per la nomina delle cariche sociali – non consente infatti di individuare un limite oggettivo e invalicabile oltre il quale l’autonomia statutaria non possa derogare il regime legale e modificare il sistema maggioritario “puro” da esso derivante.

Anche sotto questo profilo – oltre che sotto quello dei diritti patrimoniali – la s.p.a. (e soprattutto la s.p.a. chiusa) è divenuta uno strumento suscettibile di una “contrattualizzazione” molto incisiva, tale da discostarsi in modo sensibile rispetto alla sua connotazione tipica, ma pur sempre senza travalicare i confini del “tipo”, divenuti assai più ampi ed elastici rispetto al sistema precedente alla riforma del 2003 e alle successive modificazioni normative.

3. – La massima reputa altresì ammissibile che l’autonomia statutaria, oltre ad attribuire a categorie di azioni il diritto di nomina dei componenti degli organi sociali, disciplini le modalità con cui ciò può avvenire. In mancanza di un’esplicita disciplina, si può ritenere che ciò avvenga nel modo più vicino al regime legale. La nomina viene cioè deliberata dall’assemblea ordinaria, nell’ambito della quale vengono pertanto esercitati i diritti di nomina attribuiti alle diverse categorie di azioni, direttamente in sede di votazione o con le modalità previste dallo statuto o disposte dal presidente, a seconda dei casi. In questo modo, l’efficacia della nomina deriva direttamente dalla deliberazione dell’assemblea ordinaria, la cui “volontà” si forma con il concorso dei diversi diritti di voto, di designazione e di nomina previsti dallo statuto.

Nulla impedisce, peraltro, che l’autonomia statutaria ritenga preferibile disciplinare un procedimento decisionale a formazione progressiva, anche con il concorso delle deliberazioni delle assemblee speciali delle diverse categorie o delle manifestazioni di volontà da parte della totalità dei titolari delle azioni di una o più categorie. Se un simile procedimento è a disposizione dell’autonomia statutaria allorché si decide di attribuire il diritto di nomina agli strumenti finanziari partecipativi (per i quali è pacifico che non si dà luogo ad un’unica votazione e deliberazione insieme agli azionisti in assemblea ordinaria, quand’anche la riunione fosse prevista nello stesso luogo e nello stesso momento), non si vede quale ragione possa giustificare una regola più restrittiva e inderogabile allorché la medesima vicenda venga prevista in ordine a una o più categorie di azioni.

La massima ricorda peraltro l’inderogabilità dell’art. 2369, comma 4, c.c., ai sensi del quale “Lo statuto può richiedere maggioranze più elevate, tranne che per l’approvazione del bilancio e per la nomina e la revoca delle cariche sociali”. Ciò fa sì che lo statuto non possa impedire che in seconda convocazione l’assemblea ordinaria sia in grado di nominare tutti i componenti degli organi sociali anche con l’intervento di una sola azione di qualsiasi categoria, in caso di mancato intervento di tutte le altre azioni. Resta fermo che, se le azioni delle categorie cui sono attribuiti i diritti di nomina intervengono effettivamente, lo statuto può comunque riconoscere loro, in modo vincolante anche in seconda convocazione, il diritto di nominare i componenti degli organi sociali nella misura e nelle modalità previste dallo statuto stesso.

Si conclude affermando l’applicabilità analogica della disposizione dettata per gli amministratori, i sindaci e i consiglieri di sorveglianza nominati dagli strumenti finanziari partecipativi (art. 2351, comma 5, c.c.) anche agli amministratori nominati dalle categorie di azioni. Ad essi si applicano, cioè, le medesime norme previste per gli altri componenti dell’organo cui partecipano – e così per quanto riguarda le modalità e le cause di cessazione – fermo restando che lo statuto può prevedere diverse tipologie di clausole e meccanismi per assicurare una determinata “composizione” dell’organo in caso di cessazione di uno o più membri.

Nota bibliografica

1.  Da alcuni anni la dottrina si è espressa a favore della legittimità delle clausole che riservano ad una o più categorie il diritto di nominare i componenti degli organi di amministrazione e controllo. Si vedano: N. Abriani, Partecipazione azionaria, categorie di azioni e altri strumenti finanziari partecipativi, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, volume IV, tomo I, Le società per azioni, CEDAM, Padova, 2010, p. 307 ss., a superamento della posizione precedentemente assunta in N. Abriani, Commento all’art. 2351 c.c., in Il nuovo diritto societario, diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasco e P. Montalenti, Zanichelli, Bologna, 2004, p. 324 ss.; U. Tombari, La nuova struttura finanziaria della società per azioni (Corporate Governane e categorie rappresentative del fenomeno societario), in Riv. soc., 2004, p. 1090; A. Angelillis – M.L. Vitali, Commento all’art. 2351 c.c., in Azioni, a cura di M. Notari, in Commentario alla riforma delle società , diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2008, p. 470; F. Bonelli,Gli amministratori di S.p.a. a dieci anni dalla riforma del 2003, UTET, Assago, 2014, p. 21 (il quale ricorda come «la riforma del 2003, avendo spezzato la tradizionale corrispondenza tra «proprietà» e «potere» (.), conferm[i], anche sotto questo profilo, la legittimità di sistemi di nomina degli amministratori che (.) consentano ai soci di slegare la nomina degli amministratori da una precisa proporzionalità con il valore dei conferimenti»); V. Donativi, Strumenti di corporate governance nel rapporto tra fondi di private equity e PMI, in Banca, Borsa e Titoli di Credito, 2008, I, p. 217, il quale si chiedeva se: «l’emissione di azioni con diritto prioritario di nomina sia libera o se debba invece reputarsi subordinata al consenso unanime dell’intero capitale sociale o quanto meno ad un’approvazione ex art 2376 cc.».

Nello stesso senso si veda l’orientamento dell’Osservatorio sul diritto societario del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Massima n. 15 – Categorie di azioni e nomina degli amministratori (15/2010), in Orientamenti dell’Osservatorio sul diritto societario, IPSOA, Assago, 2012, p. 45 e ss., ove si afferma che: «è legittima la clausola dello statuto di una s.p.a. che attribuisca ad una o più categorie di azioni il diritto di nominare una componente minoritaria del consiglio di amministrazione o degli organi di controllo; [.]». Dopo il d.l. 91/2014 (e pertanto dopo la modifica dell’art. 2351 c.c.), il predetto Osservatorio ha emesso un nuovo Orientamento, ancora inedito (Categorie di azioni a voto plurimo e nomina delle cariche sociali – 47/2014) ma reperibile all’indirizzo internet del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato (http://www.consiglionotarilefirenze.it/index.php/orientamenti.html), nel quale si legge che: «È legittima la clausola dello statuto di una società per azioni non quotata con sistema tradizionale di amministrazione e controllo, che riconosca a due distinte categorie di azioni il diritto di nominare, rispettivamente, la maggioranza (o la totalità) dell’organo di amministrazione e la maggioranza (o la totalità) dell’organo di controllo, purché ciascuna di tali categorie sia titolare della maggioranza dei diritti di voto esercitabili nelle deliberazioni aventi per oggetto, rispettivamente, la nomina degli amministratori e la nomina del collegio sindacale».

In senso contrario si esprimeva quella parte della dottrina ante riforma 2003, supportata da non recenti sentenze di merito, che affermava che il procedimento di nomina dovesse svolgersi in seno all’assemblea generale degli azionisti, essendo tale organo quello preposto – per legge – alla nomina delle cariche sociali: per tutti v. G. Caselli, Vicende del rapporto di amministrazione, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 4, UTET, Torino, 1991, p. 24 (il quale affermava che «appaiono invece in contrasto con i principi ora ricordati le più ricorrenti previsioni statutarie imperniate sulla presenza di una pluralità di categorie d’ azioni: così quella che prevede una votazione per assemblee speciali (o comunque votazioni separate), come quelle che assegnino alle varie categorie di azioni di designare alcuni amministratori da eleggersi poi dall’assemblea»).

2. – Fino all’abrogazione del divieto di emissione di azioni a voto plurimo, l’opinione prevalente escludeva l’ammissibilità di previsioni statutarie che riservino la nomina della maggioranzadegli amministratori a una categoria di azioni che non rappresentialmeno la metà del capitale sociale: A. Angelillis – M.L. Vitali, Commento all’art. 2351 c.c., cit., p. 470; U. Tombari, Le categorie speciali di azioni nella società quotata, in Riv. soc., 2007, p. 975; Osservatorio sul diritto societario del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Massima n. 15, cit., p. 45 e ss.; N. Abriani, Partecipazione azionaria, categorie di azioni e altri strumenti finanziari partecipativicit., p. 307 e ss. (ove si legge che: «La volontà legislativa di preservare il rapporto tra proprietà e controllo, espressa da tali precetti, impone infatti di escludere l’ammissibilità di previsioni statutarie che riservino la nomina della maggioranza degli amministratori a una categoria di azioni che non rappresenti almeno la metà del capitale sociale e ciò indipendentemente dalla circostanza che tale risultato si raggiunga direttamente, attraverso l’attribuzione di un diritto di nomina da esercitarsi con votazioni separate delle singole assemblee speciali o indirettamente, mediante meccanismi elettorali. Analogo giudizio di incompatibilità con il principio che fissa nella metà del capitale la soglia massima all’emissione di azioni a voto limitato va riferito alle clausole che ripartiscano tra due distinte categorie di azioni il diritto di nomina, rispettivamente, dell’organo di amministrazione e dell’organo di controllo»). Nello stesso senso, si vedano le osservazioni di M. Notari – A. Giannelli, Commento all’art. 2346, comma 6, c.c., in Azioni, a cura di M. Notari, in Commentario alla riforma delle società , diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Egea-Giuffré, Milano, 2008, p.103 e ss. (ove si afferma che: «se l’ordinamento giuridico impone di far sì che non meno della metà del capitale sociale abbia sempre e comunque il potere di assumere un ruolo dominante nelle deliberazioni di nomina delle cariche sociali (tale essendo il risultato della combinazione delle regole testé ricordate [ndr. art. 2351, comma 2, ultima frase e art. 2351, comma 4], contenute nell’art. 2351, non potrà a maggior ragione ritenersi legittimo uno schema statutario che attribuisca a non soci il potere di nomina della maggioranza degli amministratori»).

3. – Con riferimento alle modalità con cui viene assunta la deliberazione di nomina delle cariche sociali, si vedano: A. M. Leozappa, Nomina delle cariche sociali e categorie azionarie, in Giur. Comm., 1996, I, p. 800 ss. (il quale distingue «a seconda che il diritto di nomina si specifichi nel diritto a eleggere direttamente (tramite votazioni o assemblee speciali) i componenti degli organi sociali, o nel diritto a che questi ultimi siano scelti tra i titolari di una determinata categoria, o nel diritto a designare i componenti degli organi sociali, poi votati dall’assemblea», ritenendo che «nel caso in cui il diritto di nomina si configuri come possibilità di eleggere direttamente i consiglieri di amministrazione o i sindaci, attraverso votazioni o assemblee speciali, non si può non convenire con quell’orientamento che ha individuato nella violazione del principio della unitarietà del procedimento deliberativo e della competenza assembleare argomenti per sostenere la nullità della clausola»); P.M. Sanfilippo, Funzione amministrativa e autonomia statutaria nelle società per azioni, Giappichelli, Torino, 2000, p. 337 ss., ed in particolare p. 351, ove si legge che: «(.) i princìpi cardine che presiedono alla disciplina del procedimento assembleare (…) escludono la configurabilità statutaria di assemblee separate per la nomina di amministratori da parte di determinati “gruppi” di azioni (quand’anche qualificabili come categorie di azioni): siffatta conformazione del procedimento di nomina non garantirebbe né partecipazione né controllo in capo ad ogni socio che non possieda azioni di quel determinato “gruppo” o categoria, essendo per definizione escluso il diritto di intervento (e dunque di discussione) nell’assemblea separata da parte degli estranei a tale “gruppo”; non potendosi poi dar luogo ad un’unica proclamazione e verbalizzazione; e rimanendo infine oltremodo incerta la stessa reperibilità di una impugnativa dai soci esterni a quelle assemblee. L’obiettivo di distribuire le scelte di merito sui preposti in capo a diversi gruppi della compagine sociale, in definitiva, può ben essere perseguito con clausole che introducano votazioni separate per “gruppi” di azioni, purché con svolgimento all’interno della stessa assemblea generale: soltanto l’unitarietà della fase d’iniziativa e di quella costitutiva possono garantire ad ogni socio di soddisfare l’interesse al “controllo” od (anche) alla “partecipazione” sull’intero procedimento di nomina».

In senso opposto, cfr. N. Abriani, Partecipazione azionaria, categorie di azioni e altri strumenti finanziari partecipativicit. p. 309, il quale afferma invece che: «l’autonomia statutaria potrà regolare liberamente il procedimento di formazione della volontà sociale in ordine alla nomina degli organi sociali, prevedendo, alternativamente, una votazione separata nell’ambito dell’assemblea ordinaria (generale) ovvero una deliberazione dell’assemblea speciale (o più deliberazioni delle rispettive assemblee speciali), che a sua volta potrà essere configurata quale nomina diretta ed immediatamente efficace, ovvero nomina diretta, ma condizionata nella sua efficacia all’approvazione dell’assemblea generale (che in tale sede potrà unicamente operare un risconto della legittimità del procedimento) o ancora quale mera designazione dei componenti che saranno formalmente nominati dall’assemblea generale». Nello stesso senso,l’orientamento dell’Osservatorio sul diritto societario del consiglio notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Massima 15,cit., p. 53. [Nota bibliografica a cura di F. Mottola Lucano]

143. Il minimo legale del capitale sociale delle s.r.l. (artt. 2463, 2482 e 2482-ter c.c.)

In seguito alle modificazioni dell’art. 2463 c.c., ad opera del d.l. 76/2013, tutte le s.r.l., a prescindere dall’ammontare del capitale sociale:

a) possono deliberare una riduzione del capitale sociale a copertura di perdite a un ammontare inferiore a euro diecimila, sia qualora la società versi nelle situazioni di cui agli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c., sia qualora essa abbia perdite inferiori a un terzo del capitale sociale;

b) possono deliberare un aumento del capitale sociale, a titolo gratuito o a pagamento, ad un ammontare inferiore a euro diecimila, anche in seguito a riduzione o azzeramento del capitale sociale a copertura di perdite.

Si ritiene invece che non possa essere deliberata una riduzione del capitale sociale mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti o mediante passaggio di capitale a riserve disponibili, qualora, all’esito dell’operazione, la somma del capitale sociale e della riserva legale risulti di ammontare inferiore a euro diecimila.

Motivazione

La massima affronta alcune questioni interpretative relative al minimo del capitale sociale della s.r.l., con riferimento alle operazioni di riduzione e di aumento di capitale, in seguito alle modifiche apportate dal d.l. 76/2013.

Per un verso, l’art. 2463 c.c., pur mantenendo l’originaria disciplina secondo la quale “L’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico e deve indicare (.) l’ammontare del capitale, non inferiore a diecimila euro” (comma 2, n. 4), dispone ora che “L’ammontare del capitale può essere determinato in misura inferiore a euro diecimila, pari almeno a un euro. In tal caso i conferimenti devono farsi in denaro e devono essere versati per intero alle persone cui è affidata l’amministrazione” (comma 4).

Per altro verso, le norme in tema di riduzione “effettiva” e di riduzione per perdite sotto il minimo legale continuano a fare riferimento al limite minimo di cui all’art. 2463 n. 4) c.c., ossia diecimila euro. Così avviene nell’art. 2482 c.c. che dispone che “La riduzione del capitale sociale può avere luogo, nei limiti previsti dal numero 4) dell’articolo 2463” e nell’art. 2482-ter c.c., ai sensi del quale “Se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dal numero 4) dell’articolo 2463, gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo“.

Sorgono pertanto diversi interrogativi, i principali dei quali riguardano: (i) la possibilità di deliberare una riduzione del capitale sociale a copertura di perdite a un ammontare inferiore a euro diecimila, a prescindere dalla circostanza che esse siano o meno superiori a un terzo del capitale oppure che lo riducano o meno al di sotto del limite di euro diecimila o di euro uno; (ii) la possibilità di deliberare un aumento di capitale, gratuito o a pagamento, a un importo inferiore a euro diecimila, anche in seguito a riduzione o azzeramento del capitale sociale a copertura di perdite; (iii) la possibilità di deliberare una riduzione “effettiva” del capitale sociale a un importo inferiore a euro diecimila.

Nell’affrontare tali questioni si è anzitutto ritenuto che il rinvio al limite dell’art. 2463 n. 4) c.c. (diecimila euro), contenuto nelle due norme sopra citate (artt. 2482 e 2482-ter c.c.) sia frutto di un difetto di coordinamento e sia da interpretare come se fosse riferito alnuovo limite contenuto nel successivo comma 4 dello stesso art. 2463 c.c. (un euro). Si è altresì ritenuto che il nuovo limite di un euro non rappresenti unicamente una sorta di “agevolazione” in sede di costituzione della società, bensì rappresenti in generale il nuovo limite minimo del capitale sociale nella s.r.l., pur residuando alcune regole che mantengono una sorta di “vincolo patrimoniale” al medesimo importo di diecimila euro cui era collegato il vecchio limite minimo.

Questi due assunti poggiano essenzialmente sulla constatazione che l’attuale quadro normativo ha esteso a qualsiasi s.r.l. la possibilità di costituirsi e di proseguire per l’intera durata stabilita dallo statuto – o se del caso a tempo indefinito – con un euro di capitale sociale e con un patrimonio netto non inferiore a un euro. Se tale regola di “nascita” e di “sopravvivenza” della s.r.l. non è legata a determinate tipologie di società, a determinate attività, a un determinato periodo di tempo o ad altri determinati requisiti o condizioni, significa che il sistema delle società di capitali rende ormai applicabile alle s.r.l. la disciplina del capitale sociale pur in presenza di una dotazione patrimoniale meramente simbolica. Ciò che rileva, in altre parole, non è tanto la dotazionepatrimoniale, quanto il sistema delle regole del capitale sociale, nel cui ambito assume primaria importanza la regola che impone l’alternativa tra “ricapitalizza, trasforma o liquida” quando il valore del patrimonio, al netto dei debiti, scende al di sotto della “asticella” minima, ora fissata a un euro. Si può quindi dire che sia tale sistema di regole – e non tanto l’altezza della “asticella” del limite minimo del capitale – a caratterizzare da questo punto di vista le società di capitali e le società cooperative, rispetto alle società di persone.

In particolare, non si ravvisano motivi di carattere né sistematico né funzionale per imporre a una s.r.l., che sia nata con un capitale pari o superiore a diecimila euro e che abbia perso l’intero capitale sociale, di ricostituire il proprio capitale sociale a un importo “non inferiore a diecimila euro”, cosa che occorrerebbe fare se si volesse interpretare il rinvio contenuto nell’art. 2482-terc.c. come se avesse ancora ad oggetto il vecchio limite minimo dettato dall’art. 2463, comma 2, n. 4), c.c. e non invece il nuovo limite minimodettato dall’art. 2463, comma 4, c.c. Tra le diverse considerazioni che si possono fare, si pensi in particolare alla seguente. Da un lato, una società che sia nata con un capitale sociale di un euro e che, dopo aver accantonato riserve tali da avere un patrimonio netto superiore a diecimila euro, subisca perdite tali da ridurre il proprio patrimonio netto a un ammontare non inferiore a un euro può continuare la propria attività, senza alcun obbligo di ricapitalizzazione. Dall’altro, una società che sia nata con un capitale pari o superiore a diecimila euro e che subisca le stesse perdite sarebbe tenuta, non solo a ridurre il capitale sociale a copertura delle perdite, ma anche ad aumentarlo sino ad almeno diecimila euro, ove non decidesse di sciogliersi o trasformarsi in società di persone.

Ragioni di coerenza logica, di parità di trattamento e di aderenza alle finalità della disciplina così riformata inducono pertanto ad aderire all’interpretazione – peraltro già diffusa in dottrina – che svaluta il dato letterale della norma ora citata e che colloca a un euro la soglia di ricapitalizzazione delle società che abbiano perso l’intero capitale sociale.

Una volta venuto meno il significato letterale del rinvio al vecchio limite minimo dettato dall’art. 2463, comma 2, n. 4), c.c., ai fini della ricapitalizzazione in caso di perdita del capitale sociale di s.r.l. che siano state costituite con un capitale sociale non inferiore a diecimila euro, viene meno la tenuta sistematica di tutti e tre i rinvii al vecchio limite minimo, contenuti negli artt. 2482 e 2482-ter c.c. E si giustificano così i corollari affermati nella massima in epigrafe, secondo la quale il nuovo limite minimo di un euro trova applicazione non solo in caso di ricapitalizzazione dopo la perdita del capitale, bensì anche in ogni caso di: (i) riduzione del capitale sociale, sia a copertura di perdite che mediante rimborso ai soci (o nelle altre forme dell’art. 2482 c.c.); (ii) aumento del capitale sociale, sia a pagamento sia mediante imputazione di riserve.

L’unico ulteriore vincolo che deriva dall’attuale sistema di regole, concerne invero le ipotesi di riduzione del capitale con modalità diverse dalla copertura di perdite (ossia mediante rimborso ai soci, mediante liberazione dei soci dall’obbligo dei conferimenti o mediante passaggio di parte del capitale sociale a riserva), qualora la somma del capitale sociale e della riserva legale risulti inferiore a euro diecimila. Questa operazione sarebbe infatti incompatibile con l’obbligo di accantonamento “accelerato” della riserva legale, disposto dall’art. 2463, comma 5, c.c., che dà luogo a una sorta di “seconda asticella” posta dal legislatore a un livello superiore al nuovo limite minimo del capitale sociale, in corrispondenza del vecchio limite minimo dei diecimila euro. Siffatto patrimonio netto vincolato sembra quindi impedire che qualsiasi s.r.l. deliberi volontariamente un’operazione sul capitale che abbia ad effetto la riduzione di tale patrimonio netto vincolato – costituito dalla somma del capitale sociale e dalla riserva legale – al di sotto dei diecimila euro. Va infine segnalato il problema che si verifica quando il capitale sociale eroso da perdite al di sotto dei diecimila euro non sia interamente versato, stante la possibilità che la previsione dell’art. 2463, comma 4, c.c., sia da interpretare nel senso che anche in questo caso il capitale sociale, una volta ridotto a un ammontare inferiore a diecimila euro, debba essere interamente versato.

Nota bibliografica

In seguito alle modifiche apportate all’art. 2463 c.c. ad opera del d.l. 76/2013, convertito in l. 99/2013, la dottrina prevalente ritiene ammissibile deliberare una riduzione del capitale sociale per perdite a un ammontare inferiore a euro diecimila. Si vedano: G. Marasà , Considerazioni sulle nuove s.r.l.: s.r.l. semplificate, s.r.l. ordinarie e start up innovative prima e dopo la L. n. 99/2013 di conversione del D.L. n. 76/2013, in Società , 2013, p. 1068 ss. ed ivi p. 1078 s. (ove si legge che «l’opzione che si apre ora ai soci della s.r.l., tra fissare il capitale sociale ad almeno diecimila euro (.) oppure fissarlo tra uno e novemilanovecentonovantanove euro (.) sarebbe esercitabile permanentemente, almeno se si tratta di sottrarre la società allo scioglimento causato dall’entità delle perdite. Ne seguirebbe che una società di capitali (s.p.a. o s.r.l.), ove, per effetto di perdite superiori ad un terzo, rimanga con un patrimonio inferiore a diecimila euro ma superiore ad un euro, potrebbe sopravvivere senza necessità di ricapitalizzarsi e, nel caso di s.r.l., senza necessità di trasformarsi ma solo vincolandosi, previa riduzione del capitale sociale, al più severo regime di formazione della riserva legale ex art. 2463, comma 3, nuovo testo. Così, (.) si potrebbe ritenere superabile il dato testuale dell’art. 2482 ter che pure, con riguardo alla situazione in esame, nell’imporre o la ricapitalizzazione o la trasformazione (in società personale), fa riferimento, letteralmente, al capitale minimo dell’art. 2463, n. 4, cioè a quello di diecimila euro»); C. Montagnani, Prime (e ultime) osservazioni su s.r.l. ordinaria e semplificata quasi (ma con) capitale, in Riv. dir. comm., 2013, II, p. 395 ss. ed ivi p. 412 (ove si afferma che se «prima degli ultimi interventi si poteva (.) dubitare (.) che, nella s.r.l. ordinaria, la perdita del capitale che ne intaccasse il minimo legale dovesse comportare l’applicazione dell’art. 2482-ter c.c. e, in mancanza dei provvedimenti ivi previsti (.), dell’art. 2484, comma 1, n.4), c.c., e non il mero adeguamento alla disciplina di cui all’art. 2463-bis c.c.», attualmente «l’adeguamento non comporta un’opzione “semplificatrice”, ma solo l’applicazione dell’art. 2463, ult. comma, c.c., (.) purché residui almeno un euro di capitale o il capitale sia, almeno in quella misura, ricostituito»); G.A. Rescio, Le s.r.l. con capitale ridotto (semplificate e non semplificate), in Riv. dir. soc., 2013, p. 495 ss. ed ivi p. 512; O. Cagnasso, La nuova s.r.l. italiana: una scelta legislativa eccezionale o un modello nuovo e stabile di efficienza?, in Nuovo dir. soc., 2014, p. 39 ss. ed ivi p. 44 s..

Di opposto avviso, tuttavia: S. Patriarca, Le società a responsabilità limitata a capitale ridotto dopo un anno: ancora più dubbi che certezze?, in Nuovo dir. soc., 2013, p. 8 ss. ed ivi p. 20 s. (ove si legge che «mentre il fenomeno “progressivo” appare per certi versi naturale (.), la conversione da s.r.l.-base a s.r.l. a capitale ridotto (.) non sembra possibile, in quanto (.) incompatibile con la disciplina del capitale minimo»); L. Tronci, La riserva legale a formazione accelerata: problemi vecchi e nuovi, in Riv. soc., 2014, p. 191 ss. ed ivi p. 206. In senso parzialmente contrario, quanto alle sole s.r.l. con un capitale di partenza pari o superiore a euro diecimila, si veda M.S. Spolidoro, Una società e responsabilità limitata da tre soldi (o da un euro?), in Riv. soc., 2013, p. 1085 ss. ed ivi p. 1111 s..

Correlativamente a quanto sopra esposto, la dottrina appare prevalentemente orientata nel ritenere che il presupposto di applicazione dell’art. 2482 ter c.c. risulti verificato in seguito all’abbattimento per perdite del capitale sociale al di sotto di euro uno (anziché al di sotto di euro diecimila). Contra, però, N. de Luca, Manutenzione del capitale nelle s.r.l. semplificate e in quelle in crisi, inSocietà , 2013, p. 1185 ss. ed ivi p. 1187 (ove si legge che «dato che il capitale minimo continua ad essere fissato dalla legge in misura pari a 10.000 euro (.) ogni perdita di oltre un terzo incidente sul capitale è tale da attrarre la regola c.d. ricapitalizza o liquida (2482 ter c.c.), con sostanziale inapplicabilità dunque delle previsioni dell’art. 2482 bis c.c.»); L. Tronci, op. cit., p. 205 s.; nonché, ma limitatamente alle s.r.l. costituite con un capitale pari o superiore a euro diecimila, M.S. Spolidoro, op. cit., p. 1111 s..

La maggioranza degli Autori ritiene inoltre possibile deliberare un aumento di capitale, gratuito od oneroso, a un importo inferiore a euro diecimila, anche in seguito a copertura di perdite: per tutti, si veda G.A. Rescio, op. cit., p. 507. Ci si chiede, peraltro, se il capitale sociale eroso da perdite al di sotto di euro diecimila debba essere interamente versato, stante il disposto dell’art. 2463, comma 4, c.c.: in senso affermativo, si veda G.A. Rescio, op. cit., p. 512; in senso negativo, anche in ordine alla possibilità di effettuare in tal caso conferimenti in natura, cfr. M.S. Spolidoro, op. cit., p. 1111 (ove si legge che «è (.) da escludere che per le s.r.l. tradizionali costituite con meno di diecimila euro di capitale si possa presentare il dubbio circa la possibilità di aumentare il capitale tramite versamenti parziali ovvero mediante conferimenti in natura (anche per portare il capitale stesso da un euro a meno di diecimila euro) (.). Infatti alle s.r.l. tradizionali costituite con capitale sociale compreso tra un euro e 9.999.99 euro si applicano tutte le disposizioni dettate per le s.r.l. tradizionali, senza che per esse sia previsto il filtro della “compatibilità”»).

Risulta controversa la possibilità di deliberare una riduzione “effettiva” del capitale sociale ad un importo inferiore a euro diecimila. L’opinione favorevole è stata sostenuta da F. Magliulo, La riduzione reale del capitale nella società a responsabilità limitata, in Nuovo dir. soc., 2013, p. 59 ss. ed ivi p. 71 s. (ove si afferma che «non pare che (.) dal sistema normativo si possa dedurre un divieto da parte di una s.r.l. ordinaria o una s.p.a. di assumere la forma della società a responsabilità limitata con capitale inferiore ad euro 10.000, a fronte di una regola generale immanente al sistema, che consente in linea di principio la trasmigrazione da una forma sociale all’altra (.). Dunque il tenore letterale dell’art. 2482 c.c., laddove pone, quale limite alla riduzione reale del capitale, il limite previsto dall’art. 2463 n. 4 c.c., è evidentemente frutto di un difetto di coordinamento»). In senso contrario, si sono espressi: N. de Luca, op. cit., p. 1187; L. Tronci, op. cit., p. 204; S. Patriarca, op. cit., p. 20 s.. Si veda, inoltre, G.A. Rescio, op. cit., p. 511 s. (ove il riferimento «all’aggiunto 4° comma, là dove si prescrive l’accumulo accelerato della riserva legale in misura tale da assicurare il raggiungimento di un patrimonio netto vincolato di euro 10.000 (.). Tale disposizione (.) ruota intorno al concetto di patrimonio netto vincolato (.): essa, dunque, è interpretabile (.) come sancente l’inammissibilità di una riduzione volontaria e reale del patrimonio netto vincolato, con conseguente inammissibilità di una riduzione volontaria e reale del capitale che determini un patrimonio netto vincolato inferiore ad euro 10.000 (se il capitale è ordinario) ovvero inferiore a quello, minore di euro 10.000, di cui attualmente gode la s.r.l. (se il capitale è ridotto)»).

Da ultimo, è da segnalare l’assenza di opinioni dottrinarie in merito al limite minimo da rispettare nella determinazione del capitale sociale all’esito di talune operazioni straordinarie, e precisamente: (i) in caso di trasformazione in s.r.l., sia da società di persone, con capitale sociale anche inferiore a euro diecimila, sia da società azionarie, con contestuale eventuale riduzione del capitale sociale, vuoi a copertura di perdite, vuoi mediante imputazione a riserva o mediante rimborso ai soci; (ii) in caso di fusione, sia per incorporazione in una s.r.l. avente un capitale sociale già inferiore a euro diecimila (e con un aumento a servizio della fusione a un importo inferiore a euro diecimila), sia mediante costituzione di una nuova s.r.l. con capitale sociale inferiore a euro diecimila; (iii) in caso di scissione, sia a favore di una o più beneficiarie in forma di s.r.l., con capitale inferiore a euro diecimila, sia a favore di beneficiarie preesistenti aventi già un capitale inferiore a euro diecimila (e con un aumento a servizio della fusione a un importo inferiore a euro diecimila); ipotesi, queste, nelle quali l’applicazione dei principi espressi nella massima indurrebbe mutatis mutandis a considerare che il nuovo limiti minimo del capitale sociale sia pari a un euro, anche in siffatte circostanze. [Nota bibliografica a cura di M. Borio]

144. Azioni a voto “diverso” e quorum assembleari (artt. 2351, 2357-ter, comma 2, 2368, 2369 c.c., 120, 127-quinquies, 127-sexies t.u.f.)

In presenza di azioni a voto plurimo, a voto limitato o senza diritto di voto, ai fini del calcolo dei quorum richiesti dalla legge e dallo statuto per la costituzione dell’assemblea ordinaria e straordinaria e per l’assunzione delle relative deliberazioni, si computa il numero dei voti spettanti alle azioni e non il numero delle azioni o la parte di capitale da esse rappresentata, salva una diversa disposizione statutaria.

In caso di azioni il cui diritto di voto è suscettibile di variazione in dipendenza di situazioni soggettive dell’azionista, si ritiene che:

(i) ai fini del calcolo dei quorum il cui denominatore sia costituito dal capitale sociale “totale”, si debba computare il numero dei voti spettanti a tutte le azioni emesse, al momento dell’assemblea, tenendo conto delle situazioni soggettive risultanti alla società in forza dei criteri applicabili a seconda delle tecniche di legittimazione e circolazione delle azioni di volta in volta applicabili;

(ii) ai fini del calcolo dei quorum il cui denominatore sia costituito dal capitale sociale “rappresentato in assemblea”, si debba computare il numero dei voti effettivamente spettanti alle azioni intervenute in assemblea;

il tutto fatto salvo il disposto degli artt. 2368, comma 3, e 2357-ter, comma 2, c.c.

Motivazione

1. – La determinazione dei quorum costitutivi e deliberativi delle assemblee di s.p.a. richiede due distinte “operazioni”, che potremmo definire come il computo delle azioni e il calcolo dei quorum. Il “computo delle azioni” consiste nel conteggio del numero delle azioni sulle quali si deve poi calcolare il quorum richiesto ai fini della valida costituzione dell’assemblea (quorum costitutivo) o ai fini della valida assunzione di una deliberazione (quorum deliberativo). Il “calcolo dei quorum” consiste invece nella determinazione in concreto, di volta in volta, del numero di azioni o di voti favorevoli necessario per la costituzione dell’assemblea o per l’assunzione della deliberazione.

La “base di calcolo” che si ottiene dal computo delle azioni (e sulla quale si deve calcolare il quorum) è anche definita quale “denominatore” della frazione, mentre il numero di azioni necessario per la costituzione o la deliberazione è individuato come “numeratore” della frazione medesima. Così, ad esempio, là dove si stabilisce che l’assemblea straordinaria di seconda convocazione “delibera con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea”, al denominatore si pone il numero delle azioni presenti, mentre al numeratore si pone il numero dei voti necessari per assumere la deliberazione.

Nel regime legale delle deliberazioni assembleari di società per azioni, la “base di calcolo” per la determinazione dei quorum assembleari è talvolta costituita dal capitale sociale tout court(“capitale totale”) e altre volte dal capitale sociale rappresentato in assemblea (“capitale rappresentato”). Mentre il “capitale totale” è suscettibile di essere utilizzato come base di calcolo ai fini sia dei quorum costitutivi sia di quelli deliberativi, il “capitale rappresentato” per sua natura può essere utilizzato come base di calcolo solo per i quorum deliberativi. E del resto, nel regime legale delle società per azioni, l’ordinamento si avvale del “capitale totale” quale base di calcolo talvolta per i quorum costitutivi e talaltra per i quorum deliberativi, mentre utilizza il “capitale rappresentato” solo ai fini del calcolo dei quorum deliberativi.

Quando la base di calcolo sia data dal “capitale totale”, la legge si riferisce al capitale sociale sottoscritto al momento in cui si svolge l’assemblea. Ancor meglio dovremmo dire che si deve prendere a riferimento, più che la cifra del capitale sociale, il numero totale delle azioni emesse al momento della riunione assembleare. Quando invece la base di calcolo è costituita dal “capitale rappresentato”, la legge si riferisce alla parte di capitale “presente in assemblea” ossia al numero di azioni intervenute, in ordine alle quali è stato in concreto esercitato il diritto di intervento da parte del soggetto a ciò legittimato, in proprio o mediante un suo delegato.

2. – I concetti e i principi sin qui esposti trovano applicazione senza particolari problemi allorché si dia luogo alla fattispecie paradigmatica secondo la quale tutte le azioni attribuiscono il diritto di voto e ciascuna azione attribuisce diritto a un voto. Essi richiedono invece una sorta di “adattamento” qualora ci si discosti dalla regola “un’azione, un voto”, nelle ipotesi e nei limiti in cui ciò sia consentito dalla legge. Ed è proprio su tale “adattamento” che si esprime la massima in epigrafe (che non prende tuttavia in considerazione le ulteriori possibili situazioni “perturbanti”, quali la sospensione del diritto di voto, la presenza di azioni proprie o di azioni in conflitto di interessi, essenzialmente disciplinate dagli artt. 2368, comma 3, e 2357-ter, comma 2, c.c.).

La regola “un’azione, un voto”, in seguito alla modifica dell’art. 2351 c.c., ad opera del d.l. 91/2014, è derogabile sia verso il basso che verso l’alto. Verso il basso, può essere ridotto o anche eliminato il numero di voti spettanti a ciascuna azione, fermo restando il limite complessivo delle azioni a voto non pieno (art. 2351, comma 2, c.c.). Verso l’alto, può essere aumentato il numero di voti spettanti a ciascuna azione, sino al limite massimo di tre voti per azione (art. 2351, comma 4, c.c.). Tanto la riduzione quanto l’incremento del numero dei voti possono essere configurati dallo statuto in modalità diverse: possono essere fissi o variabili nel tempo, possono riguardare tutte le deliberazioni o alcune di esse, così come possono dipendere da condizioni non meramente potestative (come espressamente previsto dall’art. 2351, comma 3 c.c., per la riduzione del voto, da ritenersi applicabile anche all’ipotesi di incremento del voto). Tali condizioni possono a loro volta riguardare in modo “oggettivo” tutte le azioni a cui si applica la diminuzione o l’incremento del voto (ad esempio il raggiungimento o il mancato raggiungimento di determinati risultati economici da parte della società, il verificarsi di determinati eventi riguardanti la società o altre vicende previste dallo statuto), così come possono dipendere da situazioni “soggettive” legate al titolare delle azioni (ad esempio la sussistenza o meno di determinati requisiti soggettivi dell’azionista, quali la forma giuridica o l’età, oppure il numero di azioni possedute dall’azionista, etc.).

In tutti questi casi di azioni a voto “quantitativamente” diverso occorre pertanto adeguare i criteri coi quali si procede sia al computo delle azioni che al calcolo dei quorum.

La massima afferma la necessità – in tutti i casi di computo delle azioni, sia quando la base di calcolo è data dal “capitale totale”, sia quando essa è costituita dal “capitale rappresentato” – di “sostituire” il numero delle azioni con il numero dei voti ad esse spettanti. Il che significa che in presenza di “azioni a voto quantitativamente diverso”: (i) quando la base di calcolo è data dal “capitale totale” si deve prendere a riferimento il numero totale dei voti spettanti alle azioni emesse al momento della riunione assembleare; (ii) quando invece la base di calcolo è costituita dal “capitale rappresentato”, si deve prendere a riferimento il numero totale dei votispettanti alle azioni intervenute.

Tale criterio rappresenta il logico corollario della regola dettata espressamente dalla legge per una delle ipotesi di “azioni a voto quantitativamente diverso”, ossia le azioni senza voto. Ai sensi dell’art. 2368, comma 1, c.c. – dettato per l’assemblea ordinaria di prima convocazione, ma ritenuto pacificamente applicabile anche alle altre assemblee – sono infatti “escluse dal computo le azioni prive del diritto di voto nell’assemblea”. Ciò significa che quando la base di calcolo è data dal “capitale totale”, la legge mostra di non dare rilevanza al capitale sociale in sé, al suo valore nominale e nemmeno al numero totale delle azioni emesse, bensì alle sole azioni con diritto di voto. Posto che tale regola è stata dettata con riferimento all’ipotesi tipica (e originariamente unica) di privazione tout court del voto per determinate competenze assembleari, appare del tutto coerente estenderla alle altre configurazioni attualmente possibili della deroga al principio “un’azione, un voto”. Essa è del resto confermata dalla scelta espressamente operata dal legislatore in un particolare caso di azioni a voto quantitativamente diverso, e precisamente dall’art. 127-quinquies, comma 8, TUF, con riferimento alle azioni a voto maggiorato nelle società quotate.

Si deve altresì ritenere, a maggior ragione, che valga la medesima interpretazione, nel senso poc’anzi illustrato, anche tutte le volte in cui la base di calcolo sia data dal “capitale rappresentato”, giacchè diversamente si introdurrebbe (surrettiziamente) o una limitazione dell’incremento del voto spettante alle azioni a voto plurimo o una maggiorazione della rilevanza delle azioni a voto “quantitativamente” limitato. Il che sarebbe certamente ammissibile qualora ciò fosse voluto dall’autonomia negoziale, ma occorrerebbe a questo fine un’apposita clausola statutaria che preveda espressamente il mancato computo della diminuzione del voto o del suo incremento ai fini del calcolo di tutti o parte dei quorum costitutivi e/o deliberativi. Va peraltro precisato che il risultato finale di una simile clausola non potrebbe comunque condurre a una riduzione dei quorum minimi stabiliti dalla legge (ipotesi che potrebbe verificarsi, ad esempio, qualora essa fosse riferita alle ipotesi di voto contingentato o scaglionato).

3. – Il criterio di computo dei voti – anziché delle azioni – nel capitale totale o nel capitale rappresentato ai fini del calcolo di tutti i quorum assembleari, affermato nel primo comma della massima, richiede poi un’ulteriore precisazione nei casi in cui la deroga al coefficiente 1:1 di attribuzione del diritto di voto sia subordinata a condizioni soggettive, dipendenti da situazioni del singolo azionista e non valevoli per tutte le azioni. In questi casi (si è fatto l’esempio della sussistenza o meno di determinati requisiti soggettivi dell’azionista, quali la forma giuridica o l’età, oppure del numero di azioni possedute dall’azionista, etc.), la differenza sta nel fatto che il numero complessivo dei voti spettanti alle azioni emesse è mutevole nel tempo e dipende da fattori diversi per ciascun azionista, non sempre e necessariamente noti alla società.

Ciò non crea alcun problema per il computo dei voti allorché la base di calcolo sia data dal “capitale rappresentato”, giacchè la società è in grado di verificare, al momento dell’assemblea, le condizioni soggettive relative a tutte le azioni intervenute, mentre d’altro canto non rilevano (con riferimento al capitale rappresentato) le condizioni soggettive relative alle azioni non intervenute. Quando invece la base di calcolo sulla quale si deve verificare il quorum (costitutivo o deliberativo che sia) è data dal “capitale totale”, occorre stabilire con quale criterio procedere a tale operazione. Nella massima si afferma che si deve tener conto delle situazioni soggettive risultanti alla società al momento di inizio dell’assemblea, in forza delle tecniche di legittimazione e circolazione delle azioni di volta in volta applicabili.

Il che significa che: (i) se le azioni sono incorporate in certificati azionari, l’accertamento del numero di voti spettanti al momento dell’assemblea viene effettuato in base ai certificati azionari esibiti ai fini dell’intervento, per le azioni intervenute, e alle risultanze del libro dei soci, per le azioni non intervenute; (ii) se le azioni non sono incorporate in certificati azionari, avendo la società deciso di non emetterli ai sensi e per gli effetti dell’art. 2346, comma 1, c.c., l’accertamento del numero di voti viene effettuato, per tutte le azioni, in base alle risultanze del libro dei soci; (iii) se le azioni non sono incorporate in certificati azionari, avendo la società optato per il regime di dematerializzazione ai sensi degli artt. 83-bis e seguenti TUF, l’accertamento del numero di voti viene effettuato in base alle certificazioni inviate dagli intermediari ai fini dell’intervento, per le azioni intervenute, e alle risultanze del libro dei soci, per le azioni non intervenute. E’ peraltro possibile, e in tal caso assume rilevanza ai fini anche dell’accertamento del numero dei voti per il computo della base di calcolo, che lo statuto faccia dipendere la modifica, verso l’alto o verso il basso, del numero dei voti spettanti alle singole azioni, da una procedura di accertamento preventivo, che consente pertanto alla società di sapere, in ogni momento, quale sia il numero totale dei voti spettanti a tutte le azioni in circolazione.

Quanto sopra esposto deve altresì tener conto, per le società con azioni negoziate in mercati regolamentati e in sistemi multilaterali di negoziazione, della disciplina speciale contenuta nell’art. 83-sexies TUF, con particolare ma non esclusivo riferimento alla regola della c.d. record date, nonché, per le società con azioni negoziate in mercati regolamentati, della disciplina del voto maggiorato, ai sensi dell’art. 127-quinquies TUF.

Nota bibliografica

La questione del computo dei quorum costitutivi e deliberativi, in presenza di azioni a voto limitato o senza diritto di voto, era in parte già analizzata dalla dottrina prima della recente modifica dell’art. 2351 c.c. ad opera del d.l. 91/2014 (c.d. “decreto Competitività”). Si vedano in particolare: A. Angelillis – M.L. Vitali, Sub art. 2351, in Azioni. Artt. 2346 – 2362 c.c., a cura di M. Notari, in Commentario alla riforma delle società , diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi e M. Notari, Milano, 2008, p. 459, secondo i quali «in presenza di azioni a voto scaglionato e azioni per le quali si applica il tetto, i quorum deliberativi vanno calcolati considerando unicamente i voti esprimibili in assemblea. In conclusione, ai fini dei quorum deliberativi, non pare vi sia alcun dubbio che la maggioranza debba essere determinata sulla base del numero dei voti espressi in assemblea, così come calcolati in forza delle clausole di limitazione del voto»; C.A. Busi, Assemblea e decisioni dei soci nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata, in Trattato di diritto dell’economia, diretto da E. Picozza e E. Gabrielli, Padova, 2008, p. 837, per il quale «al denominatore della frazione relativa al quoziente deliberativo deve porsi la cifra, diversa da quella corrispondente alla regola generale che si ricava dalle norme richiamate, corrispondente al numero complessivo dei voti effettivamente esercitabili. Tale necessità, peraltro, si può fondare, anziché su un’inammissibile disapplicazione o interpretazione antiletterale delle norme di legge, sulla previsione di un’implicita deroga statutaria a tale regola generale in conseguenza della stessa previsione statutaria dell’emissione di tali particolari azioni, pure in assenza di una formale precisazione in merito alle conseguenze che quest’ultima comporta in tema di calcolo dei quozienti deliberativi»; F. Tassinari, Sub artt. 2368-2369, in Commentario romano al nuovo diritto delle società , diretto da F. d’Alessandro, Volume II, Tomo I, Padova, 2010, p. 612.

Riguardo all’impatto sui quorum assembleari a fronte di azioni con voto plurimo, già prima della modifica dell’art. 2351 c.c., si veda M. Bione, Il voto multiplo: digressioni sul tema, in Giur. comm., 2011, I, p. 673 ss., il quale annovera tra gli «inconvenienti e quelle difficoltà pratiche cui l’ammissione del voto plurimo potrebbe dar luogo (.) [le] possibili difficoltà nel conteggiare i quorum costitutivi e deliberativi richiesti per la validità delle delibere assembleari».

Quanto alla letteratura successiva, con riferimento alle azioni con voto maggiorato, si veda Assonime, Le azioni a voto plurimo e a voto maggiorato, Circolare n. 10 del 7 aprile 2015, p. 52 ss., per la quale «la base di calcolo dei quorum deve essere corretta integrando la base di computo (il capitale sociale) con i diritti di voto maggiorato, comprendendo cioè, al denominatore così come al numeratore, tutti i voti potenzialmente esprimibili, anche per effetto della maggiorazione». La medesima Circolare (alla nt. 120) evidenzia che «l’impostazione è coerente con i principi generali espressi dagli artt. 2368 e 2369 sulle modalità di calcolo dei quorum assembleari, che escludono le azioni istituzionalmente prive del diritto di voto» e richiama altresì «la previsione dell’art. 120 Tuf», secondo cui “nelle società i cui statuti consentono la maggiorazione del diritto di voto o hanno previsto l’emissione di azioni a voto plurimo, per capitale si intende il numero complessivo dei diritti di voto”. Secondo la Circolare, poi, «il fatto che la maggiorazione del voto vada ad aumentare il denominatore determina un’attenuazione dell’incremento del peso del voto determinato dalla maggiorazione stessa. La norma fa salva la possibilità per lo statuto di disporre diversamente. Lo statuto potrebbe, ad esempio, escludere dal computo dei quorum, costitutivo e deliberativo, la maggiorazione del voto per determinate materie, di fatto escludendolo in casi determinati (il che sarebbe equivalente alla limitazione della maggiorazione del voto a determinate delibere o materie)». Con riferimento alle azioni a voto plurimo, si vedano M. Sagliocca, Il definitivo tramonto del principio “un’azione, un voto”: tra azioni a voto multiplo e maggiorazione del voto, in Riv. not., 2014, p. 940 ss., secondo il quale «quanto . all’influenza che le azioni “a voto plurimo” dispiegano sui quorum, costitutivi e deliberativi delle assemblee dei soci, occorre probabilmente concludere che detti quorum dovrebbero essere tarati non sul capitale a prescindere dal voto, ma sul capitale in quanto (e come) dotato del diritto di voto (infatti, se il voto plurimo non “pesasse” sui quorum, perderebbe ogni sua rilevanza) (.). Un indizio normativo in tal senso è offerto dal nuovo art. 127-quinquies, comma 8, T.U.F. (in tema di azioni “a voto maggiorato” nelle società quotate) ove il legislatore stesso si è premurato di chiarire come “la maggiorazione del diritto di voto si computa anche per la determinazione dei quorum costitutivi e deliberativi che fanno riferimento ad aliquote del capitale sociale”: invero, non si vedrebbe perché questa disciplina non dovrebbe identicamente applicarsi anche alla analoga materia del voto plurimo nelle società “chiuse”»; e ancora Assonime, Le azioni a voto plurimo e a voto maggiorato, Circolare n. 10 del 7 aprile 2015, p. 28, in cui si evidenzia che «la soluzione interpretativa per cui i quorum costitutivi e deliberativi vanno calcolati secondo una misura di capitale sociale corretta in base al numero dei voti potenzialmente esprimibili appare ragionevole e conforme non solo ai principi espressi in tema di maggiorazione del diritto di voto ma anche alle regole di calcolo del quoziente costitutivo e deliberativo delle assemblee (.). Resta comunque salva la facoltà dei soci di prevedere nello statuto regole in tema di quorum diverse dal regime sopra indicato (sempre nel rispetto dei principi generali in tema di quorum costitutivi di cui agli artt. 2368 e 2369 c.c.) e quindi stabilire, ad esempio, un quorum costitutivo collegato ad una certa aliquota di capitale senza tener conto dei voti attribuiti dalle azioni a voto plurimo». Si veda, infine, P. Abbadessa, Le azioni a voto plurimo: profili di disciplina, in Impresa e mercato. Studi dedicati a M. Libertini, Milano, 2015, p. 10 ss., secondo il quale «un problema assai delicato che si pone riguardo all’influenza delle azioni a voto plurimo su funzionamento della società concerne il calcolo dei quorum. Come noto, la questione risulta testualmente affrontata e risolta dal legislatore in caso di azioni a voto maggiorato ai sensi dell’art- 127-quinquies, TUF, avendo il legislatore stabilito che “la maggiorazione del voto si computa anche per la determinazione dei quorum costitutivo e deliberativo che fanno riferimento ad aliquote del capitale sociale” (art. 127-quinquies, co. 2, TUF)». Secondo l’A., «che nel caso di azioni a voto plurimo tale regola debba valere per i quorum deliberativi (.) sembra fuori discussione: innanzitutto perché non avrebbe senso calcolare le maggioranze non tenendo conto del numero complessivo dei voti a disposizione dei soci, ma anche in quanto, diversamente opinando, il peso decisionale del voto multiplo potrebbe risultare depotenziato contro alla presumibile intenzione del legislatore». Viceversa, secondo l’A., «la risposta appare meno sicura con riferimento ai quorum costitutivi, riguardo ai quali: (a) il silenzio legislativo (significativo se raffrontato a quanto previsto per le azioni a voto maggiorato), (b) la maggiore incisività sul sistema dei poteri del voto plurimo rispetto al voto maggiorato, nonché (c) l’esigenza, sottolineata da un’attenta dottrina nel quadro di uno studio molto elaborato, di puntare su una disciplina dell’istituto meglio calibrata nella direzione di assicurare un riequilibrio dei rapporti di potere fra i soci inducono complessivamente a preferire la soluzione che ritiene ininfluente il voto plurimo per il calcolo dei quorum costitutivi». [Nota bibliografica a cura di A. Piantelli]

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